Nel fazzoletto bianco con le righe rosse è avvolto un oggetto che Mayumi Suzuki (Onagawa 1977, vive e lavora a Zushi, Yokohama) ha rinvenuto tra le macerie dello studio di suo padre, nello stesso edificio dell’abitazione di famiglia nella città di Onagawa, insieme ad alcune istantanee in parte danneggiate dall’acqua e dal fango. Una città sulla costa nordorientale del Giappone, nella prefettura di Miyagi, che l’11 marzo 2011 è stata spazzata via dallo tsunami generato dal devastante terremoto.
È la prima volta che Mayumi porta all’estero la lente di un apparecchio fotografico di suo padre che è qualcosa di più di un oggetto-reliquia. Questo dispositivo ottico – così com’era, con i granelli di sabbia e la salsedine, quando è stato trovato – non funziona bene, ma usarlo per la fotografa è stato un mezzo utile per confrontarsi con quel passato dolorosissimo. I frammenti del passato, rielaborati e in parte ricostruiti, affiorano in The Restoration Will che è il bellissimo libro (Ceiba Editions, 2017) vincitore del Photolux Photoboox Grandprix, ma è anche la mostra prodotta da Spazio Labò con il supporto del Comune di Bologna e il patrocinio dell’Istituto giapponese di cultura (a cura di Laura De Marco), esposta nello Spazio Loft, a Roma, nel circuito di FotoLeggendo 2018 (fino al 28 giugno). Nell’ambito del festival, abbiamo incontrato Mayumi Suzuki.

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Come è nata l’idea di «The Restoration Will?»
Avevo appena saputo che i miei genitori non si erano salvati dal disastro dello tsunami. Io, come mia sorella Hirono che è più grande di me di sei anni, vivo da anni lontano da Onagawa. Due settimane dopo, siamo tornate. Ci siamo messe a cercare quello che potevamo prendere intorno alla casa, rasa al suolo. Abbiamo trovato alcune macchine fotografiche (erano nello studio di mio padre) e dei piatti della cucina. C’era anche un grande treppiedi, ma era così pesante che non siamo riuscite a caricarlo. Cinque anni dopo, ho cominciato a chiedermi come poter raccontare la mia storia personale, lo tsunami e la scomparsa di persone care. Per questo motivo, ho deciso di frequentare a Tokyo un workshop organizzato da Yumi Goto, una photo editor veramente speciale che ha fatto parte anche della giuria del World Press Photo. Numerosi fotografi erano venuti nella mia città a documentare gli accadimenti e lo avevano fatto in un modo molto tradizionale. Io volevo esprimere il concetto di perdita con una chiave diversa. L’11 marzo 2011 ho perso non solo i miei genitori e la mia casa, ma anche la mia città che è stata distrutta per il 70% e un’altissima percentuale dei suoi abitanti sono morti o dispersi. Come poter raccontare le loro storie? Durante il workshop sul libro fotografico con Yumi, ho portato le foto che avevo raccolto in cinque anni. Erano per lo più i ritratti di altre famiglie, amici sopravvissuti e anche immagini di paesaggio. Quando Yumi mi ha chiesto come mai volessi narrare la storia di altre famiglie e non della mia, mi sono resa conto che forse non volevo confrontarmi con la mia vicenda: era troppo doloroso e triste. Lei ha insistito e ho ceduto. In quello stesso periodo, ho iniziato a usare la lente dell’obiettivo di mio padre, montandola su un grande formato 4×5 pollici. Il meccanismo di apertura e chiusura dell’otturatore era rotto, per utilizzarlo dovevo farlo manualmente, contando «1, 2 e 3» per stabilire i tempi di esposizione. Ho provato a fotografare nel pomeriggio, dopo il tramonto e di notte con tempi molto lunghi. Era solo una prova, ma funzionava. Quanto all’associazione delle mie foto in bianco e nero con le vecchie istantanee a colori, in parte danneggiate, dell’album di famiglia, quella la devo a Yumi. È stata lei a suggerirmi di prendere le vecchie istantanee fatte da mio padre.

Il libro contiene molte pagine nere. L’uso di questo non colore ha un significato metaforico per lei?
Quando ho scattato le foto, nell’oscurità della notte, in piedi sulla spiaggia dove sono morte molte persone, percepivo il loro spirito, mentre magari tornavano in città. Il nero delle immagini è il collegamento con loro. In una foto c’è anche una striscia blu che viene dall’oceano. Avevo preso la barca – alle due o alle tre del mattino – ero a circa 500 km al largo della mia città, quando ho notato una striscia di insetti notturni che creavano un effetto, come fossero tante lanterne. Vedendola, mi sono rilassata. Ho pensato che, forse, i miei genitori erano lì, intorno a me. Quella luce mi ha avvicinata a loro. Quando, poi, ho inserito le istantanee che faceva mio padre – anche mia madre l’ha sempre aiutato nel lavoro di studio, pure se non scattava – ho avuto l’impressione che il passato fosse tornato in maniera fluida. L’incidente mi ha sconvolta. Anche tante altre persone che vivono in città non vogliono ricordare. La maggior parte degli abitanti ha perso familiari e amici. Spesso, non parliamo del passato, solo del futuro. È invece importante ricordare perché è la nostra identità.

Quando ha iniziato a lavorare a questo progetto, lei era già una professionista. Anche suo nonno Koi Sasaki e suo padre Atsushi erano fotografi. Qual è stata la loro lezione?
Mio nonno era nato nel 1909 ed è morto nel 1985, non ho molti ricordi di lui. Proveniva dall’interno del paese e aveva aperto il suo studio a Onagawa nel 1930. Dopo tre anni , uno tsunami distrusse la città e lui ricostruì interamente il suo atelier. Mi sono sempre chiesta per quale motivo avesse scelto di vivere in quello stesso luogo, rimettendo in piedi il proprio studio. Nel 1960, quando mio padre aveva vent’anni e lavorava con mio nonno, un altro terribile tsunami arrivò dal Cile. Rase al suolo la città, che fu nuovamente riedificata. Ancora una volta, mi sono posta la medesima domanda: perché sono sempre rimasti?

Non lo ha mai chiesto a suo padre?
No, mai. È la vita normale per le persone che vivono lì.

Mayumi Suzuki. Foto Manuela De Leonardis

Ricostruire è una sorta di resistenza…

Sì. La mia famiglia aveva una relazione buona con i vicini e lo studio fotografico rappresentava un archivio, la raccolta delle memorie di tutti. In Giappone abbiamo l’usanza di andare dal fotografo in occasione degli anniversari: la nascita di un bambino, l’anno scolastico, il matrimonio, il festeggiamento dei vent’anni quando si entra nell’età adulta. La mia città è molto piccola e ci conosciamo tutti, quindi lo studio fotografico è sempre stato un luogo d’incontro sociale. Personalmente ho voluto riassemblare il mio passato attraverso il libro fotografico, perché volevo comunque ricostruire qualcosa, ma senza tornare a abitare lì. Ora vivo a circa 500 km di distanza, vicino Tokyo.

Quando ha iniziato a interessarsi alla fotografia?
Al College of Art della Nihon University di Tokyo ho scelto il dipartimento di fotografia. Essendo cresciuta nello studio di mio padre ero interessata alla ritrattistica. Lui scattava dei bellissimi ritratti che stampava da sé, nella sua camera oscura. Alcune volte abbiamo lavorato insieme, io gli chiedevo come usare la luce e altre informazioni tecniche, mentre lui voleva imparare i metodi di stampa che avevo appreso all’università. Dopo gli studi, ho iniziato come fotografa di matrimoni. Mi piaceva far sì che la gente fosse felice. Ora non faccio più quel mestiere, comincio a diventare grande ed è una professione che richiede molte energie e forza.

La memoria è anche il tema di Onagawa, il suo nuovo progetto editoriale…
Il primo lavoro riguardava la mia famiglia, mentre Oganawa è la storia delle altre vite. Sono un po’ come fratello e sorella. Anche qui ci sono delle foto scattate da me, paesaggi e ritratti della gente del posto, a confronto con i loro album di famiglia. Kiichi Kimura, ad esempio, è nato nel 1933 e, quando era bambino, lo tsunami cancellò la sua città. Lui non ricordava nulla, ma sua madre gli raccontò quello ch era accaduto. L’ho intervistato e mi ha spiegato come la città fosse stata ricostruita. Shizuharu Kanno e suo figlio Kenji, che è un mio amico, lavorano insieme nell’industria ittica. Il signor Kanno aveva 15 anni quando ci fu lo tsunami arrivato dal Cile. Era un grande sodale di mio padre. Ho inserito anche la bellissima foto del suo matrimonio, in cui sembra Elvis Presley. A scattarla fu proprio mio padre.