Da un paio di mesi gli ucraini combattono all’interno dei loro confini per respingere l’esercito della Federazione Russa. È stato scritto che la loro resistenza non è paragonabile a quella degli italiani. Tra gli altri Alessandro Portelli (il manifesto, 11 marzo 2022).

Nel settembre del 1943 il governo del generale Pietro Badoglio, in fuga con il re da Roma, abbandonando il vecchio alleato per divenire cobelligerante, combattente cioè al fianco degli anglo-americani, lasciava in mani naziste i due terzi del Paese, ispirando nelle regioni occupate la nostra Resistenza.

Nulla di confrontabile con il contesto nel quale si svolge oggi il conflitto russo-ucraino. Lo stesso presidente Zelensky, parlando alle nostre camere il 22 marzo, pur non rinunciando, com’è divenuto suo costume, a toccare le corde più sensibili degli interlocutori di turno, non vi ha fatto riferimento.

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Stabilita la distanza, basta questo per non chiamare resistenza l’opposizione organizzata degli ucraini all’invasione russa? Nel corso di una trasmissione televisiva Donatella Di Cesare (Piazza Pulita, ancora 11 marzo) ha obiettato che l’uso della parola resistenza nel caso dell’Ucraina è inappropriato perché in quel paese non c’è una guerra civile ma è in atto, piuttosto, un conflitto tra due Stati. È evidente il richiamo all’esperienza italiana del biennio 1943-45 come paradigmatica della resistenza al nazifascismo, misura alla quale condizionare il lessico e forse la stessa approvazione dell’esercizio della violenza per contrastare gli invasori.

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Tra i movimenti resistenziali quello jugoslavo è certamente fra i più noti.

La Jugoslavia venne aggredita nell’aprile del 1941 dall’esercito tedesco, affiancato subito dopo da quello italiano. Il KPJ, il Partito Comunista Jugoslavo, diffuse un proclama invitando i cittadini a prendere le armi contro gli invasori per difendere la libertà e l’indipendenza della nazione e affidò la guida delle formazioni partigiane al maresciallo Josip Broz Tito. Non era allora in corso una guerra civile e non per questo la resistenza jugoslava è riconosciuta e ricordata oggi come tra le meglio organizzate in Europa.

Anche se bisognerà attendere l’attacco nazista all’Urss e la conseguente rottura del patto Molotov-Ribbentrop, il 22 giugno 1941, perché l’intero e variegato fronte comunista si ricompatti; la data di inizio della resistenza in Francia può essere considerata il 18 giugno 1940 quando il generale Charles de Gaulle, parlando a radio Londra, si rivolse ai francesi per incitarli alla lotta contro i tedeschi e il governo collaborazionista del maresciallo Henry Pétain. Anche nella Russia occupata dai tedeschi in seguito all’operazione Barbarossa si organizzò una resistenza e anche qui senza che una guerra civile fosse in atto.

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Il richiamo alla guerra civile, quale caratteristica di contesto di una resistenza armata a un esercito occupante, vale dunque solo per l’Italia e per la Germania ma in quest’ultima l’opposizione restò sempre clandestina organizzando alcuni tentativi di assassinio del Führer, l’ultimo dei quali, il complotto del 20 luglio 1944, portò alla disarticolazione del movimento resistenziale oltre che alla cattura e alla morte di oltre duecento veri o presunti partigiani.

Possono esserci altre ragioni per non riconoscere al movimento che oggi si oppone in Ucraina all’invasione russa un carattere resistenziale ma non possono essere quelle della guerra civile (sorvolando su quanto avviene nel Donbass dal 2014). Se ve ne sono altre andrebbero esplicitate per consentire un dibattito che potrebbe rivelarsi utile a ricompattare la sinistra italiana su un nucleo di valori universali e condivisi.