Di fronte a un film come Piuma, secondo titolo italiano in concorso, più che dire se è bello o brutto c’è da chiedersi perché è stato selezionato (Indivisibili era senz’altro una scelta migliore), se per questione di gusto o di opportunità, e in entrambi i casi non è una decisione che fa bene né la festival – a Cannes o a Berlino i film nazionali possono essere modesti ma mai così mediocri – né al cinema italiano sul quale in questi giorni si spendono tante parole. Il punto più importante rispetto al nuovo film di Roan Johnson però è proprio questo: produzione Sky e Palomar, una delle società partner nel neonato polo distributivo tra la televisione di Murdoch e alcuni produttori italiani, Piuma sembra il prototipo di ciò che produrrà la nuova legge cinema di Franceschini dalla quale film «incomprensibili» (e magnificamente dentro molti generi) come Spira Mirabilis appaiono esclusi in favore di una maldestra idea del «mercato» intellegibile modello fiction tv (italiana).

E in effetti il film di Roan Johnson potrebbe essere un «ottimo» spin off per una serie modello Cesaroni o Medico in famiglia o pure È arrivata la felicità un po’ più «giovane», con qualche faccia nuova e altre giù collaudate (il Brando Pacitto di Braccialetti rossi). Sfondo la periferia romana due teenagers, Cate (Blu Yoshimi) e Ferro (Luigi Fedele) all’ultimo anno di scuola, lei è incinta e siccome ha già abortito e avrebbe difficoltà a fare un altro figlio vuole tenerlo. Lui, wikipedia del ragazzetto romano del Tuscolano, pure nonostante tutti gli dicano che fanno una «cazzata»: non hanno un euro, non lavorano, lei soltanto alle scommesse dove il padre dilapida tutto al punto che la moglie rumena (ovvio se no non si ride) lo ha lasciato per rientrare in Romania.

I genitori del ragazzo, figli del boom come chiosa lui, implicito: perciò è giusto che ci mantengano – si fanno carico dei nove mesi e dei casini che verranno, il padre arrabbiato, la madre entusiasta come vuole il prototipo ebete (è Michela Cescon, peccato perché è una brava attrice) di tutte quelle madri che rendono il maschio italiano incapace pure di lavare i piatti fino a cinquant’anni (e oltre).

Non siamo dalle parti di Ken Loach e delle adolescenti scassate e marginali madri precoci in cerca di welfare, qui sono tutti «bravi ragazzetti» (le inquadrature del palazzone romano servono come scenografia), e nemmeno della sfacciataggine di Juno, la ragazzina americana incinta suo malgrado di Jason Reitman. Quella di Johnson anche autore della sceneggiatura insieme a Ottavia Madeddu, Davide Lantieri, Carlotta Massimie è una commedia «generazionale» (lo sono tutti i suoi film) sugli adolescenti di oggi che mettono la piscinetta in casa e fanno bambini per sentirsi qualcuno. In realtà pure sui trenta-quarantenni, come il regista che racconta di avere scritto questa storia a partire dalle incertezze condivise con altri amici sul fare un figlio.

Nulla in contrario, per carità, al cinema «intimista» se è spunto per raccontare qualcosa del mondo. Qui però rimaniamo alle battute ammiccanti, che fanno ridere, al grazioso che rasserena tutti, che tutti possono capire, che tutti sono contenti. Dunque: sarà questo il futuro per il nostro cinema, lo «stimolante» promesso dal nuovo polo distributivo? Il cortile di casa al suo meglio. Evviva.