Accade spesso durante un concerto che qualcuno prenda Emidio Clementi per la giacchetta e gli dica «Dai spostati un po’…». È la sua voce. È come se il cantante dei Massimo Volume volesse allontanarla un po’ da sé, tanto da dargli autonomia di pensiero e parola, per poi ascoltarla mentre gli chiede di lasciare un po’ di spazio tra di loro.

«Quando la voce non è cantata ma parlata ce l’hai davvero addosso – spiega Emidio – e di solito mi dà molto fastidio. Ecco, sul palco quello che cerco di fare è di ripristinare una distanza prospettica tra lei e me. Utilizzo delle parole comuni, provo a non enfatizzarle troppo e cerco di essere meno ieratico. Questo è lo sforzo più grande che faccio durante un concerto», spinto da una necessità che si rivela una questione di ingombro e di vuoto, in una ridefinizione di equilibri tra la voce, chi sta davanti al microfono e la voglia di spingere il volume degli strumenti al massimo. «Ci sono momenti in cui anche la band spinge, la batteria spinge e sembra che mi dicano anche loro ’Spostati che deve passare un treno’. Suonando i diversi spazi sono sempre messi in discussione: anche se lavoriamo come un qualsiasi gruppo rock, sul palco la canzone per noi è una costante lotta pacifica tra musica e parola».

Nell’ultimo disco dei Massimo Volume Aspettando i barbari (e il 14 gennaio è in uscita una ristampa in vinile del loro terzo album, Da qui, del 1997…) l’incontro tra suoni e liriche genera una stratificazione maggiore di quella di Cattive abitudini: «tre anni fa abbiamo lavorato alle tracce di quell’album come fossero le take di un disco jazz anni Cinquanta, cominciavamo a suonare, facevamo una versione intera e se funzionava salvavamo tutto. C’erano poche sovraincisioni al contrario del nuovo cd, che è molto articolato; ci siamo stati sopra dal novembre 2012 e per otto mesi abbiamo lavorato tanto anche su quella che vorremmo definire cromaticità dei suoni, aggiungendo pennellate e pennellate di chitarre».

Queste parole legate all’ambito della pittura riflettono le scelte stilistiche di Emidio che nelle canzoni mostra, non racconta, «secondo una modalità che sento più mia e che arriva da autori che mi hanno sempre ispirato per la capacità di scrivere per immagini come Ben Shepard, Raymond Carver e Sherwood Anderson. Nei loro scritti non mancano riflessione e introspezione, ma è l’azione a trascinare tutto. Per i personaggi ho guardato molto ai dischi del Bob Dylan di metà anni Sessanta come Highway 69 e Bring it back home. Quando ho cominciato a scrivere La notte, ricordo che osservavo proprio come lui riuscisse a passare da un soggetto all’altro con semplicità. In questo pezzo, come in tutto Aspettando i barbari la densità di parole è molto alta, forse eccessiva», ma se non c’è molto spazio per il silenzio, ce n’è per uno dei suoi più grandi estimatori, John Cage, che ritorna con alcuni suoi versi in Da dove sono stato e in Dymaxion song. In entrambi i pezzi lo si trova in compagnia dell’inventore, architetto e teorico americano Buckminster Fuller, che nei suoi saggi coniò il termine «efemeralizzazione», ossia la capacità in ambito tecnologico di fare «sempre più con sempre meno, fino ad arrivare a fare tutto con nulla». Quel tutto che in musica Cage raggiunse nel suo celebre pezzo 4’33’’. «La cosa meravigliosa di entrambi – sottolinea Clementi – è il loro spingersi in territori dove non si può arrivare con il buon senso. Fuller in particolare è stato un grande utopista del Novecento, un personaggio totalmente positivo, come lo è Danilo Dolci». Sono infatti del sociologo e attivista nonviolento italiano le parole in apertura del disco nella traccia Il dio delle zecche, dove vince «chi cerca di non smarrire il senso, la direzione», che funziona quasi come un testo programmatico in apertura del disco.

Nonostante i Massimo Volume siano spesso stati tacciati di cupezza, secondo Emidio questo ultimo disco infatti «ha una bella energia, è un album di gente in battaglia, dove la realtà è descritta in tutte le sue ambiguità. Lavorare in questo mondo di chiaroscuri e di contraddizioni anche stridenti mi affascina tantissimo». Come stridenti apparivano in una Bologna d’inizio anni Novanta i Massimo Volume, «dai nostri live la gente scappava infastidita, se non inorridita – ricorda Emidio – poi pian piano è passato il fatto che anche il nostro potesse essere un modo di fare musica, costruito su limiti come il non cantare, che sarebbe poi diventato tratto distintivo del gruppo».

Oggi come allora ci si lamentava che l’Italia era l’Italia: «Si guardava all’estero e ognuno aveva i suoi debiti musicali con l’America e l’Inghilterra, Patti Smith e i Germs per me, si continuava a dire che era un casino suonare e tutto il resto. Forse girava qualche soldo in più e le case discografiche scommettevano più facilmente su un artista, ma soprattutto non c’era ancora una tradizione; così ci abbiamo messo più tempo a capire come muoverci, nessuno ci ha insegnato niente, né sul palco, né dietro: quando si andava in giro a suonare non c’era certo un tecnico per le luci, anzi sì, era il tuo coinquilino che veniva a darti una mano».