Si ha paura della morte e si passa l’intera esistenza a inventare creativi modi per esorcizzarla, ma dall’altra parte anche il nostro stare al mondo presenta non poche difficoltà. Non sempre è «zona» confortevole. Lo dimostra il monello dell’artista ceco Kristof Kintera che, vestito come qualsiasi adolescente globalizzato, faccia al muro, rinuncia a quell’indecifrabile mondo, sbattendo la testa ripetutamente sullo stesso punto, fino a scavare la sua disperazione (o impotenza).

MA IL COMPITO dell’arte, come spiega anche Teresa Macrì, curatrice della mostra You got to burn to shine che si è inaugurata presso la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma (visitabile fino al 7 aprile) non è trovare soluzioni ardite alle domande che ogni dispositivo sociale pone. Semplicemente, è quello di concedersi (e, allo stesso tempo, regalare al suo pubblico) «oasi di libertà», per dirla con Hannah Arendt, lettura sottesa a tutto il percorso espositivo. Sono intuizioni che aprono squarci nella reclusione del quotidiano e recuperano il «pensiero discordante», per citare il libro-guida scritto da Macrì (edito da Postmedia Books), attraverso cui si può impaginare questa collettiva che preleva il titolo da una raccolta poetica di John Giorno. You got to burn to shine («per brillare devi bruciare», mosaico di esperienze intime e biografiche, tra cui il sodalizio con Andy Warhol che lo volle in Sleep), trasloca così al museo romano, autore compreso. Lui, dall’alto dei suoi ottantadue anni arriva in galleria, sorride benevolo alla direttrice Cristiana Collu che lo accoglie e racconta di una Roma sparita i cui cittadini, oggi avvelenati da parole tossiche, un tempo amavano la poesia e accorrevano ai reading internazionali di Castelporziano. John Giorno, all’epoca, contrasse un debito d’amore con la città per quella propensione poetica inaspettata e oggi può ricambiare, offrendo i suoi versi con il ritmo ipnotico delle litanie.

POI, LASCIA IL CAMPO agli altri artisti. E per chi non fosse pronto ad affrontare gli angoli meno smussati della realtà, l’esperienza emotiva dell’ascolto può continuare con quel suo Dial-A-Poem (1968-2012) di cui sono stati riannodati i fili smarriti. Un telefono nero è su una mensola, aspettando la mano che lo sollevi: dispenserà poesie casuali, pescando in duecento componimenti di ottanta sognatori e performer.
L’idea scaturì da uno scambio con Burroughs; all’inizio le linee erano dieci e Giorno si accorse subito che il picco di chiamate coincideva con l’orario di lavoro in ufficio, segno della necessità perenne di uscire da sé e di non poter ingoiare solo noia e regole indigeste per tutta la vita. Oltretutto, ci si poteva imbattere anche in brevissimi discorsi politici delle Pantere nere, per scuotersi dall’inedia.

NELLA COSTRUZIONE della mostra, la letteratura si è offerta come chiave per presagire itinerari possibili. Neon Afterwords di Fiamma Montezemolo (antropologa convertita all’arte) parte da un racconto di Jorge Luis Borges, quell’Etnografo americano, Fred Murdock, che una volta entrato nella cultura dei nativi non volle più sottoporre al microscopio i loro segreti e, impregnandosi lui stesso di quegli umori, li tenne per sé, rompendo il patto con la scienza. L’artista sceglie alcune frasi del libro, le cancella (ricollegandosi alle performance di scrittura negata di Isgrò) e le riconsegna al neon, come fossero insegne oracolari.

NEL TENTATIVO di interrogare passato e presente, di aggrapparsi a una qualche funzione dell’intellettuale nella società, Jeremy Deller s’immagina insegnante. Va in classe e in Everybody in the place: an incomplete history of Britain 1984-1992 (film di sessanta minuti che fa parte di una trilogia) cerca di spiegare ai ragazzi tra i banchi come la cesura vera tra due pezzi del Novecento sia in quegli anni Ottanta intrisi di minatori che si scontravano con la polizia e di rave sotto acid music.

LA STORIA RECENTE è anche l’inquadratura di riferimento per il video di Luca Vitone che ha scelto di esplorare Berlino in bicicletta, attraversando i quartieri della Ddr mentre fischia l’Internazionale. Alla fine, le bici abbandonate diventano un gioco per bambini, un carosello che somiglia ai girotondi insensati e vertiginosi su seggiolini instabili. Al contrario, sono invece inamovibili i giocattoli da mare di Elena Bellantoni, scolpiti nel cemento, come le fondamenta di molta Italia che sta crollando. È un’infanzia imprigionata e affondata nella grigia pesantezza di un materiale che ha tradito la fiducia illimitata trasformandola in menzogna.
Più morbidi – ma solo in apparenza – sono i tappetini di gomma che invitano a chiudere la bocca con un’immagine quasi ludica: rappresentano la sedimentazione visiva di Silencio di Francis Alÿs, performance in cui l’artista ha provato a scolpire il silenzio tramite corpi di persone e atti di ribellione e «spegnimento» delle normali attività di fronte all’urgenza della guerra.
La strada spianata dalla mostra concepita da Teresa Macrì è accidentata, ma concede alcune pause. Una di queste è senz’altro Più forte del lampo al magnesio, la luccicanza di Luca Guadagnino, un oggetto misterioso che inganna la percezione e riconduce lo spettatore al punto di partenza: l’indistinto essere.