Il genio di Diego Armando Maradona si deve essere trasmesso per via transitiva anche ad Asif Kapadia, regista grazie al quale la nomea del documentario come cinema figlio di un dio minore continua a pertuarsi. Specializzato in centoni dedicati a figure quali Ayrton Senna o Amy Winehouse cosa che gli permette di vivere di gloria riflessa grazie ai sempre avidi tabloid, da Kapadia era lecito attendere il peggio. E invece. Così dopo il Maradona ad personam di Kusturica (Maradona by Kusturica…), giunge Diego Maradona. Semplicemente. E, nonostante le attese fossero al minimo storico, il film si rivela giusto e appassionante, in grado di rendere giustizia a a un personaggio unico, leggendario, la cui ascesa è stata tanto miracolosa quanto disastrosa, catastrofica, infinita la caduta. Non ultimo dei meriti del regista, è di avere organizzato la magmatica materia biografica della vita e delle gesta di Maradona secondo un criterio che se rispetta l’inevitabile scansione temporale e biografica, dall’altra crea con efficacia non banale un contesto umano e sociale.

DALLE ORIGINI umilissime nella bidonville di Villa Fiorito ai sogni di gloria adolescenziali, passando per la triste esperienza spagnola sino ai trionfi napoletani e alla tragedia finale. Il materiale d’archivio, alcune cose notissime altre molto meno viste, permette un flusso di coscienza inarrestabile. Come se Maradona fosse testimone della sua vita osservata attraverso lo spioncino di un archivio dedicato esclusivamente alla sua vita. Motivo per cui anche i pochissimi spettatori che ignorano tutto del calcio o che lo hanno in antipatia, riescono a seguire la parabola del pibe de oro come se fosse un esemplare romanzo di formazione. Kapadia tenta con grande forza di mettere in luce il talento sovrannaturale di Maradona, anche se Pelè – in un frammento in bianco e nero – si chiede se il prodigio argentino sia dotato della necessaria disciplina per potere durare nel tempo. Rispetto al film sulla Winehouse, nel quale Kapadia sembrava che volesse battere i tabloid sul loro stesso terreno, con Diego Maradona si avverte una tensione umana diversa. Come se il regista non avesse alcuna voglia di giungere ai giorni finali della caduta del calciatore.

NON A CASO, attraverso il montaggio, il film riesce a legare insieme, come in un’unica danza continuata e infinita, le prodezze di Maradona, un tiny dancer del calcio, una collezione di momenti nei quali scorrono davanti agli occhi i segni di «un grande che ha la capacità di trascendere i suoi limiti fisici, una dimostrazione di genio…», secondo quanto sosteneva Carmelo Bene che però gli preferiva Ruud Gullit. L’altro grande, cupo e straordinario, inevitabile protagonista del film, è la città di Napoli, ebbra d’amore per il suo idolo, Salvatore, santo, miracolo, riscatto, rivincita, orgoglio. Un amore talmente intossicante che ha perduto Maradona, oggetto di una devozione che forse nemmeno San Gennaro e la Madonna hanno mai ricevuto in forme così lancinanti e intense.

BASTI PENSARE al tifoso sugli spalti che sotto la camicia custodisce come una reliquia uno scarpino che si presume essere stato calzato da Maradona. La festa mobile e infinita, le sconfitte inflitte alle alle grandi del calcio italiano, i due scudetti, la Uefa e tutte le partite vinte, come grani di un rosario nel quale il tifo, come nel miracolo del sangue di San Gennaro, si transustanzia in devozione e articolo di fede. E poi la caduta. Kapadia la registra, ma non insiste. Si limita al minimo, riflettendo sul privilegio che il mondo ha avuto di vedere in azione Diego Armando Maradona, il calciatore argentino che segnando con la mano riscatta persino l’aggressione delle Falklands.