Se c’è una legge che sposta le potenzialità pulite dei territori da un interesse collettivo ad un interesse privato, quella è la n.164/2014. Meglio conosciuta come Sblocca Italia. Perché il testo che il governo Renzi da deciso di blindare nel novembre 2014 con doppio voto di fiducia – alla Camera e al Senato – racchiude una serie di agevolazioni e favori alle compagnie petrolifere che operano nel nostro Paese, e a quelle che presto arriveranno. Infatti, gli articoli 36, 37 e soprattutto 38 della legge Sblocca Italia, più di ogni altra norma del settore upstream ed in linea con le linee guida contenute nella Strategia energetica nazionale varata nel 2012 dal Governo Monti, tracciano la strada che l’Italia tenterà di seguire nei prossimi anni in materia di energia e di sfruttamento delle fonti fossili. Lo fanno sbloccando quelli che i maggiori operatori e le principali associazioni di categoria – come Assomineraria e Federpetroli – hanno sempre definito resistenze da sindrome di Nimby: impedimenti ed opposizioni delle comunità, in primis, ed eccessiva burocratizzazione degli iter autorizzativi. Da qui, l’attribuzione del «carattere di interesse strategico di pubblica utilità, urgenti e indifferibili» per tutti i progetti di prospezione, ricerca e coltivazione di gas e greggio in terraferma ed in mare, per la realizzazione di gasdotti di importazione di gas dall’estero, di terminali di rigassificazione, di stoccaggi sotterranei di gas naturale ubicati in Pianura Padana ed infrastrutture della rete nazionale di trasporto gassifero. In merito ai quali lo Stato, tramite i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, si sostituirà agli Enti locali su fattibilità, localizzazione e durata delle concessioni.

Siamo di fronte a una quasi militarizzazione energetica dell’intera Penisola, che grazie ad un processo di deregolamentazione normativa in nome della sicurezza degli approvvigionamenti, trasformerà cittadini e regioni in semplici osservatori. Da Nord a Sud, i confini italiani potrebbero cambiare con l’approvazione di un centinaio di progetti energetici, in zone sensibili, in prossimità e all’interno di aree protette ed in conflitto con le economie locali basate su agricoltura, pesca e turismo. Secondo gli ultimi dati forniti a dicembre 2014 dal ministero dello Sviluppo economico, per effetto della legge Sblocca Italia i quasi 60 mila chilometri quadrati di permessi di ricerca e concessioni detenuti dalle compagnie petrolifere tra la terraferma ed il mare aumenterebbero di ulteriori 100 mila chilometri quadrati. Quasi il triplo. Una proporzione che vale per l’Adriatico e lo Jonio, il Molise e l’Abruzzo, la Sicilia e la Basilicata che rappresenta la gallina dalle uova d’oro per Stato e multinazionali.

In territorio lucano, che ospita il più grande giacimento di petrolio in terraferma d’Europa, a livello autorizzativo è tutto pronto per dare inizio all’aumento della soglia degli attuali 85 mila barili di greggio estratti giornalmente fino, e forse oltre, 154 mila barili giornalieri. Eni che opera nella valle dell’Agri e Total che opera nella valle del Sauro lo faranno grazie ad accordi stipulati con Stato e Regione rispettivamente nel 1998 e nel 2006. Per la Basilicata la legge Sblocca Italia rappresenta la possibilità di scambiare il raddoppio delle estrazioni petrolifere e degli impatti su ambiente e salute con lo svincolo dal Patto di Stabilità di una parte di quel ristoro economico, chiamato royalties, che ogni anno finisce nelle casse della Regione e che la Corte dei Conti ha messo al centro di una specifica indagine avviata nel 2009 e conclusa con una relazione nell’aprile 2014 che ha restituito un quadro desolante: al 2001 al 2012 i fondi derivanti dall’estrazione del petrolio, e assegnati ai Comuni, ammontano a circa un miliardo di euro. L’80% circa delle amministrazioni comunali ha utilizzato questi fondi per spese correnti e non per sviluppo e lavoro. Quelle stesse amministrazioni (la metà dei 131 Comuni lucani) che da tre mesi con regolari delibere hanno chiesto al presidente della Giunta regionale, Marcello Pittella, di impugnare l’articolo 38 della legge dinanzi alla Corte Costituzionale. Una richiesta sostenuta da opposizioni di piazza, comitati e studenti, però ignorata dal Consiglio regionale che il 4 dicembre 2014 ha scelto una strada diversa, ovvero la mediazione con il governo Renzi, nella speranza di arrivare a una modifica dell’articolo 38. Per tutta risposta il governo ha invece rafforzato lo stesso impianto normativo con alcuni emendamenti alla Legge di Stabilità che ribadiscono il ruolo non vincolante degli enti locali, e la Regione a fine anno ha ribadito il suo no all’impugnazione. Il 10 gennaio scadono i termini entro i quali presentare ricorso alla Consulta. Finora la Sicilia ha scelto la strada del referendum abrogativo, mentre solo Lombardia, Campania, Puglia e Abruzzo hanno dato mandato ai propri legali. Quest’ultima lo ha fatto sottolineando il fallimento della mediazione con la Basilicata. Il cui destino è nero. Come il petrolio.

* Autore di “Trivelle d’Italia” (Altreconomia edizioni, 2012) e “I padroni della luce” (Magenes editoriale, 2015). Co-autore dell’ebook “Rottama Italia” (Altreconomia edizioni, 2014)