Ciao mamma, vado a giocare sul canale. Torna presto, non farti male, e mi raccomando non perturbare la sicurezza nazionale. E cosa doveva dire, la signora Hernandez, a quel suo figlio quindicenne imbrancato tra i coetanei nei campi spelacchiati tra El Paso e Ciudad Juarez, dove crescono solo i cactus ma proliferano le fabbrichette della maquila, l’invisibile armata dei terzisti sottopagati al servizio dell’industria americana?

QUEL GIORNO Sergio Adrian Hernandez Guereca e la sua banda decisero di andare a giocare la versione messicana dei quattro cantoni: correre giù dalla sponda del canale, attraversarlo, risalire la sponda opposta e toccare la rete di confine. E l’agente della Border patrol americana Jesus Mesa decise di inforcare la bicicletta e pattugliare il suo segmento di recinzione patria alla ricerca, disse, di contrabbandieri. Non era una rete qualunque: da una parte delle maglie di metallo e filo spinato c’era il Texas, dall’altra il Chihuahua.

Finì col ragazzino morto ammazzato, colpito in faccia da un proiettile esploso dell’agente. Era il 7 giugno del 2010. L’altro giorno, dopo quasi dieci anni, la Corte suprema degli Stati uniti ha deciso che l’agente Mesa non si può processare, i genitori di Sergio Hernandez non hanno il diritto di chiedere giustizia. Perché «è coinvolta la sicurezza nazionale», ha scritto il massimo giudice americano Samuel Alito nella sentenza, quindi è un affare che riguarda la diplomazia e il Congresso, non i tribunali. Quindici anni, quattro cantoni, sicurezza nazionale. Bentornati nel selvaggio West.

IL RAGAZZINO MESSICANO non aveva diritto alla protezione costituzionale, dice il pronunciamento della Corte suprema votato 5-4 dai massimi giudici, perché è stato ucciso in Messico, circa 18 metri dentro il territorio messicano. La pistola dell’agente Mesa era negli Stati uniti, un metro dentro il territorio americano.

I diritti umani si fermano sul confine, ma le pallottole tendono a ignorare le leggi frontaliere. Decine di casi analoghi sono aperti tra la Border patrol americana – la temutissima Migra, come la chiamano a sud del confine – e messicani di solito molto giovani, colpiti a morte o feriti dal fuoco transfrontaliero degli agenti. La sentenza sul caso Hernandez era attesa da decine di famiglie che attendono giustizia e indennizzi, spesso da molti anni. Ora è arrivata, ed è una doccia gelata sulle speranze di padri, madri e fratelli sottoposti a una legislazione non molto diversa dal vecchio motto del West: «Dio creò l’America e Samuel Colt la rese libera».

Quel giorno di giugno, Sergio Hernandez era con tre amici e correva su e giù dalle sponde di quel canale di cemento. Non è impossibile che provocare gli agenti di confine rientrasse nelle regole del gioco. L’agente dichiarerà che i ragazzini erano in realtà contrabbandieri o trafficanti, di aver tentato di fermarli e di aver fatto fuoco solamente per autodifesa: gli lanciavano sassi addosso, scrisse nel rapporto.

PER SUA SOMMA SFORTUNA, un passante sul lato messicano riprese tutto con il cellulare. Nelle immagini, visibili anche oggi su Youtube, si vedono i ragazzini aggrappati alla recinzione che si accorgono dell’arrivo di Jesus Mesa che pedala furiosamente sulla mountain bike d’ordinanza, e cercano di squagliarsela. L’agente getta a terra la bicicletta, afferra il ragazzo meno svelto, estrae la pistola e comincia a sparare contro gli altri, che si sono rifugiati dietro i piloni di un ponte che attraversa il confine. Sergio Hernandez si sporse dal pilone per vedere se l’agente lo stava rincorrendo, e venne colpito in faccia. Niente sassi. Niente contrabbando. E nessuna comitiva di immigrati illegali – il Fbi aveva persino provato a sostenere che Sergio in realtà fosse un coyote, stesse cioè facendo da guida a un gruppo di clandestini. Solo ragazzini scervellati e poliziotti dal grilletto facile.

E SONO TANTI, GLI AGENTI del nuovo West, distribuiti lungo tutto il sud della California e dell’Arizona e, più a sud, in Texas lungo il corso del Rio Grande. Nel 2010, dopo l’omicidio, il Messico incriminò l’agente Mesa e ne chiese l’estradizione, ovviamente negata dall’amministrazione americana (alla Casa Bianca c’era Obama, cosa che non fece alcuna differenza). Ma è con Donald Trump che la Migra è diventata la vera guardia pretoriana degli Stati uniti. La Us Border Patrol (Usbp) conta su circa 20mila agenti ed è quindi una delle più grandi agenzie del governo americano, circa 16mila dei quali schierati al confine sud, e ha un budget di 3 miliardi di dollari. È la forza armata e in uniforme che pattuglia le frontiere. Insieme alla Immigration and custom enforcement (Ice), più simile alla Guardia di finanza italiana, forma l’esercito schierato a difesa del territorio nazionale.

NEL SETTEMBRE DEL 2016, il consiglio nazionale dei dipendenti dell’agenzia votò a favore dell’appoggio a Trump alle imminenti presidenziali. Allora fu considerato un rischio ma la scommessa pagò, e pagò molto bene: «Adesso il presidente ci slegherà le mani», dichiarò il direttore dell’Ice Thomas Homan. Da allora sono cresciuti i finanziamenti, gli appalti, gli arresti. Ma insieme ai conti sono lievitate anche le denunce per abusi, violazioni dei diritti e sempre più spesso morte dei migranti che cadono in mano alla Migra. Sono sentenze come quella del caso Hernandez che tengono a bada il problema.