Walter Tocci è un dirigente vecchio stile, uno studioso, non ama le dichiarazioni estemporanee, raramente e suo malgrado si sottopone a interviste. Le sue dimissioni da senatore per un dissenso radicale sulla legge delega hanno scalfito per la prima volta la gioiosa boria del segretario-rullo compressore. Tocci le ha rassegnate al capogruppo Zanda subito dopo aver disciplinatamente votato sì alla fiducia. Alla chiama di Palazzo Madama dopo di lui ha detto sì anche Mario Tronti, anziano filosofo e padre dell’operaismo, anche lui schivo e poco incline verso i giornalisti. Che però a fine settembre a Repubblica aveva detto, pur tenendosi alla larga da ogni commento sul renzismo: «Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima. Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del 900». Parole amare. Tronti è il presidente del Centro riforma dello stato, Tocci ne è il direttore. Ma prima di dimettersi non ha parlato con il suo anziano maestro, per via di quell’idea (comune ai due) di partito: «Mi ha avrebbe chiesto di non farlo». 

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Renzi le ha indirizzato parole affettuose, ha detto che farà di tutto per farle ritirare le dimissioni. Questo cambia la sua scelta? 

Mi ha fatto molto piacere, ovviamente. Questo è il Renzi che ci piace. Devo dire però che la prima volta che ho pensato alle dimissioni è stato quest’estate durante la discussione sul bicameralismo. Renzi disse che dissentivamo per conservare lo scranno. Il Renzi di oggi dice che in un partito del 41 per cento ci possono essere posizioni diverse. Ora vedremo come si mette in pratica. Ci sono altri senatori che non hanno partecipato alla fiducia per una critica non solo al provvedimento, ma al fatto che il governo ottiene una delega in bianco senza nessun controllo. Il voto di fiducia ha impedito al parlamento di precisare questa delega. Una misura che ha negato la discussione parlamentare.

C’è chi parla di espulsione, per questi tre senatori.

Mi domando se del vecchio partito novecentesco si possa buttare via tutto – cultura, organizzazione, iscritti – e mantenere solo la disciplina. Così diventa una gabbia d’acciaio. Siamo un partito postmoderno, all’americana, anche House of Card racconta che i parlamentari americani prendono posizioni diverse rispetto al loro presidente. E quel paese ha governato il mondo.

Nel Pd i teorici del partito liquido recuperano il centralismo democratico, e lei, partitista che infatti vota comunque sì alla fiducia, chiede un partito all’americana.

In un partito postmoderno è impossibile ripristinare le vecchie regole. Ma in questo nuovo modo ci sono anche dei vantaggi. Calano gli iscritti, ma i tre milioni che hanno votato le primarie debbono essere convocati solo per acclamare un leader? Potrebbero essere chiamati nei giorni feriali per partecipare alle scelte, sul lavoro o sulla legge elettorale. Siamo in una fase nuova, bisogna utilizzare le risorse di questo tempo senza prendere del passato solo ciò che conviene.

Civati parla di ’riposizionamento del Pd’, lei stesso in aula, a proposito del jobs act, ha detto ’non siamo stati eletti per diminuire i diritti’. Il Pd smette di essere un partito di sinistra?

È stato uno strappo con il patto elettorale. Un parlamentare, nelle scelte fondamentali, deve riferirsi agli elettori, anche se è stato votato con le liste bloccate. Nel programma del 2013 non c’era scritto che si cancellava il senato. Né che si faceva una legge sul lavoro meno garantista di quella di Monti, che ha mantenuto il divieto di licenziare quando le motivazioni si rivelano false. Se togliamo quest’ultima barriera si potrà licenziare raccontando cose fasulle: va contro la civiltà giuridica e contro il buon senso. Ed è paradossale che un governo a guida Pd faccia una scelta meno garantista dei diritti di un governo tecnico.

Con lei Renzi è stato gentile. Ma altre volte ha detto che le minoranze vanno asfaltate. Come potrete restare nel Pd?

Prendo le parole di Renzi verso di me come un impegno. Cui seguirà qualcosa di nuovo nella vita interna del Pd.

Nel suo libro Sulle orme del gambero ha descritto il Pd come partito in franchising, con i capicorrente che gestiscono un brand, più che una linea politica.

Il Pd accumula dentro sé tanti fenomeni di deterioramento della politica, di notabilato, di ’statalizzazione della politica’ come l’ha definita il mio amico Fabrizio Barca. Sono processi che hanno investito tutti i partiti, italiani e non. Ma nel Pd ci sono altre risorse. Vive ancora una tradizione di partecipazione politica, ci sono elettori disposti a impegnarsi, e iscritti che ci chiamano a discutere. Certo, si vanno affievolendo perché non vengono valorizzati. Ma il Pd ha risorse non ancora messe a frutto. Continuo a sognare un Pd veramente democratico, veicolo di partecipazione dei cittadini. Oggi è l’unico grande partito italiano in cui la scommessa si può ancora tentare. Oggi utilizza solo la carta del suo leader: dà un senso di potenza e invece è un impoverimento. Perché pregiudicare la possibilità di usare altre risorse?

Anche le minoranze del Pd si sono spaccate. Cos’è che non funziona fra voi?

Non è un problema di diverse scelte tattiche. La classe dirigente della sinistra italiana non ha metabolizzato la sconfitta. Quando il 19 aprile 2013 non abbiamo eletto Prodi siamo arrivati al collasso. Ma non c’è stata alcuna spiegazione, alcuna analisi del perché. E come succede nella vita, quando c’è un lutto, se non si elabora non si trova la vitalità per cose nuove. Finché la sinistra italiana non rimuove il blocco della sconfitta aprendo una riflessione su questo, rimarrà sempre anchilosata. E se non siamo stati in grado di farlo noi, spero che lo faccia la nuova generazione. Si può guardare al futuro, ma non si archivia il passato senza una serena lettura degli errori compiuti.

La sinistra Pd, a parte quella di Civati, la guida nei fatti è di D’Alema e Bersani. Conta ancora troppo la ’vecchia guardia’?

A questo punto non si possono chiedere le soluzioni ai vecchi leader. Il nostro tempo è fatto. Certo, possiamo dare una mano. Ma deve emergere una nuova generazione di militanti e dirigenti, dentro e fuori il Pd. Le parole della sinistra ’uguaglianza’ e ’lavoro’ tornano tutte di attualità nella crisi. Bisogna declinarli su nuovi programmi e nuovi modi di concepire la politica. E questo lo possono fare solo i giovani che vivono questo tempo.

Andrà alla manifestazione della Cgil?

Ho già un impegno a Genova, vedrò come conciliare le due cose. Ma avremo tempo per ragionarci.

Insomma ritira le dimissioni?

Le dimissioni sono un atto doloroso e difficile, non si può far finta di darle. Una volta date rimangono lì. La procedura prevede che il senato si esprima,e io valuterò. Ripeto, mi piace il Renzi che si apre a un partito plurale. Spero che sia un impegno per il futuro.

Se il senato respingerà le sue dimissioni lascerà il Pd e passerà al gruppo misto?

Non mi sono dimesso dal Pd, ma dal senato. A tutt’oggi sono un militante del Pd e finché ci sono le condizioni per dare un contributo a questo partito lo darò.

Non sta pensando una qualche tipo di dialogo a sinistra, per esempio con Sel?

Non solo un dialogo con Sel ma con tutte le realtà sociali e di movimento di questo paese. Anzi, dobbiamo dialogare ancora di più. Ma la discussione nel mio partito prosegue. Nei prossimi mesi verificherò, non da solo, se in questo Pd c’è una possibilità di rappresentare un punto di vista diverso.