L’approdo nell’aula della camera della nuova legge elettorale è rimandato a maggio. «Alla prima settimana», ha precisato la conferenza dei capigruppo di ieri nel tentativo di addolcire la pillola dell’ennesimo rinvio. Ma la data esatta sarà stabilita solo tra un mese, e non è detto che all’epoca la commissione avrà trovato un’intesa. Stesso discorso vale per il «solenne» impegno di tutti i partiti ad approvare comunque un testo in aula «entro l’estate», cioè entro la pausa di agosto: il buon senso lo consiglia ma vale poco. In ogni caso sarà quello al senato il passaggio più difficile, a questo punto a ridosso dallo scioglimento delle camere per le elezioni previste a febbraio 2018. Intanto la mossa di ieri è di semplicissima lettura: fino alla conclusione del congresso del Pd – appunto, nella prima settimana di maggio – nessuna decisione sarà presa sulle regole della consultazione elettorale.

Ufficialmente il Pd resta per il Mattarellum, ma è ormai chiaro a tutti che si tratta di una posizione utile solo a tenere fermi i giochi. Però il Mattarellum è una legge difficilmente criticabile per chi milita nel centrosinistra – conta anche il fatto che l’abbia firmata l’attuale presidente della Repubblica – per cui il Pd ha buon gioco a infilzare chiunque si preoccupi di portare alla luce il gioco renziano, evidenziando l’impraticabilità di una scelta che al momento piace solo alla Lega. Ieri anche Bersani, com’era prevedibile, ha corretto la posizione del neonato Articolo 1-Mdp, precisando che il gruppo sarebbe pronto a votare per il Mattarellum, se però non avesse da tempo chiaro che si tratta di una proposta strumentale all’impasse. È la stessa posizione dei sostenitori della mozione Orlando, tanto che il ministro candidato alle primarie si è preso un po’ di attacchi dai renziani. «Non ho mai detto che non voterei il Mattarellum – ha risposto – ho solo messo in guardia il mio partito che non essere sicuri di portare a casa il risultato equivale ad andare a votare con questa legge elettorale».

Proprio con questa non è possibile, anche perché si tratta di due leggi elettorali diverse, una per la camera e una per il senato: è la devastante eredità della riforma costituzionale bocciata dagli elettori e dell’Italicum decapitato dalla Corte costituzionale (riforme volute da Renzi e appoggiate da Orlando). Ma non è da escludere che l’ex (nonché probabilmente prossimo) segretario del Pd abbia in testa minime correzioni dei due sistemi, ritocchi nella direzione di quella «omogeneità» richiesta dal capo dello stato. Un lavoro sulle soglie che porterebbe ad alzare quella di sbarramento della camera (dal 3% al 5%) ma conserverebbe il potere del capo partito di nominare più della metà del gruppo con i capilista bloccati. Avere un parlamento «governabile» è certamente un’esigenza sentita da Renzi, ma comprensibilmente non quanto quella di mantenere il bastone del comando.