A dieci anni esatti dalla sua entrata in vigore, e con l’ennesimo rinvio alla Corte costituzionale, la legge 40 sulla Procreazione medicalmente assistita può dirsi tranquillamente leader tra le norme che hanno contribuito maggiormente a intasare le povere aule di giustizia italiane (29 sono le condanne subite, comprese quelle in sede europea). L’ultima coppia, in ordine di tempo, – Valentina e Fabrizio – fertile ma portatrice di una grave malattia genetica, che non si è arresa davanti al divieto di accesso alla fecondazione artificiale e alla diagnosi preimpianto, ha ottenuto il 28 febbraio scorso dal tribunale di Roma un’ordinanza che solleva dubbi di costituzionalità sull’articolo 4 della normativa vigente. Già più volte però, solo negli ultimi mesi, i giudici romani erano stati costretti a occuparsi dello stesso articolo del testo varato il 19 febbraio 2004 dall’allora governo Berlusconi (il 26 settembre 2013, per disporre l’immediata applicazione della sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannano l’Italia a risarcire una coppia fertile portatrice di fibrosi cistica, e poi il 14 gennaio scorso per sollevare davanti alla Consulta proprio le eccezioni sull’esclusione delle coppie non sterili). Dal canto suo, la Corte costituzionale, che su questa legge si è già pronunciata in dieci anni ben quattro volte, il prossimo 8 aprile dibatterà in udienza pubblica la legittimità del comma 3 dell’articolo 4, quello che vieta il ricorso alla Pma di tipo eterologo, e l’articolo 13 che impone limiti alla ricerca scientifica sugli embrioni.

Per la giudice romana Daniela Bianchini che ha scritto l’ordinanza sul caso di Valentina e Fabrizio, la legge 40 presenta dubbi di costituzionalità «perché è in contrasto con l’articolo 2 della Carta, in quanto viola il diritto della coppia a un figlio sano e quello di autodeterminazione nelle scelte procreative. Tale diritto – si legge nel dispositivo del tribunale – sarebbe irrimediabilmente leso dalla limitazione del ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie che, pur non sterili o infertili, rischiano però concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili di cui sono portatori». «Un’ordinanza gemella a quella emessa dallo stesso tribunale romano il 14 gennaio scorso», spiegano i legali della coppia, Filomena Gallo e Angelo Calandrini, rispettivamente segretaria e componente di giunta dell’associazione radicale Luca Coscioni.

Ma in questi anni, come raccontano gli avvocati radicali, è successo anche che alcuni giudici abbiano autorizzato l’accesso alle tecniche di Pma a coppie non infertili tramite «un’interpretazione costituzionalmente orientata degli articoli 4 e 1 (commi 1 e 2) della legge hanno ritenuto che si dovesse consentire anche alla coppia fertile ma portatrice di patologia geneticamente trasmissibile l’accesso alla Pma, per poter eseguire indagini diagnostiche preimpianto sull’embrione. Questo anche alla luce della parallela legge sull’aborto (la cui mancata applicazione è stata sanzionata venerdì scorso dal Consiglio d’Europa, ndr) che consente alla donna anche oltre il novantesimo giorno di poter interrompere la gravidanza quando questa o il parto possano comportare un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Infatti, il «divieto di sperimentazione su ciascun embrione umano» prescritto nell’articolo 13 della legge, è stato ritenuto dal tribunale di Roma «circoscritto alla sperimentazione e alla ricerca», spiega l’avvocato Calandrini. Che aggiunge: «La facoltà di prestare il consenso da parte della coppia, che contempla in sé il diritto di rifiutare ogni trattamento sanitario, attribuisce alla stessa non solo il diritto alla diagnosi degli embrioni ma anche il diritto di rifiutare l’impianto degli embrioni malati». D’altronde la legge 194 permette di ricorrere all’aborto volontario anche dopo il terzo mese di gravidanza qualora le gravi malformazioni o le gravi patologie genetiche eventualmente riscontrate nel feto pongano in pericolo la salute psicofisica della donna. Ecco perché, concludono i legali della coppia romana, «il tribunale evidenzia l’irragionevolezza e l’incongruità della normativa vigente».

L’udienza con cui si pronuncerà nel merito la Consulta non sarà però quella fissata per il prossimo 8 aprile. In quell’occasione, invece, i giudici costituzionalisti dovranno pronunciarsi sulla legittimità del divieto di donazione dei gameti esterni alla coppia e sulla costituzionalità dei limiti imposti alla ricerca scientifica sugli embrioni. «In particolare – spiegano gli avvocati di Vox, l’Osservatorio italiano sui diritti che ha presentato alla Consulta un atto di intervento ad hoc – viene in rilievo la mancata differenziazione di due casi che potrebbero presentarsi: da un lato, il caso in cui si intenda creare embrioni al solo scopo di destinarli ad attività di ricerca e di sperimentazione; dall’altro lato, il caso ben diverso in cui si intenda utilizzare i numerosi embrioni, che sono da anni in stato di crioconservazione e che per questo mai verranno impiantati, ai medesimi fini di ricerca, i cui risultati potrebbero essere utilmente posti a vantaggio di altri embrioni o addirittura di chi è già persona».