I Prima di cantare vittoria aspetta che i dati, sorprendenti anche per lui, siano consolidati. Poi Salvini sceglie i toni pacati di chi ha incassato una vittoria tanto netta da non rendere necessaria l’ostentazione. “Il tempo della festa dura poco. Questo è il tempo della responsabilità. Milioni di italiani ci hanno assegnato una missione storica. Ma non c’è solo l’Italia: Le Pen è prima in Francia, Farage in Inghilterra. Il voto dice che cambieremo l’Europa. E’ nata una nuova Europa”.
“Non ci saranno regolamenti di conti. A livello nazionale non cambia nulla. Il nemico è la sinistra”, assicura il vincitore agli alleati-nemici battuti. Si augura anzi che i rapporti con i 5S, che “sono amici”, tornino sereni. E’ il guanto di velluto. Il pugno di ferro è la lista delle misure urgenti che da domani la Lega imporrà ai soci. Starà a loro decidere se piegarsi o sfidare la crisi.

Lo stato maggiore leghista, in via Bellerio, parte soddisfattissimo per gli exit poll, poi, con i primi dati reali, subentra l’euforia, partono i brindisi, scrosciano gli applausi. Un successo così non se lo aspettavano neppure loro. Avvicinarsi al 30% sembrava il traguardo più ambizioso. E’ andata molto meglio e non solo perché quel confine psicologico è stato varcato.

Fi, scesa per la prima volta sotto la doppia cifra, non sembra più in grado di impensierire l’alleato virtuale. FdI cresce e se oggi l’ala azzurra che progetta da tempo di costruire una “seconda gamba” della destra insieme a sorella Giorgia passasse all’azione, la soglia del 40% sarebbe a portata di mano anche senza Berlusconi. I 5S escono battuti da una campagna elettorale che hanno interpretato come una vera e propria guerra contro gli alleati di governo: condannati dunque a subirne l’iniziativa oppure a rischiare elezioni anticipate esiziali.

La Lega fa l’en plein: è di gran lunga il primo partito, stacca di molte misure i soci di maggioranza, ridotti a terzo partito, stravince in Piemonte. Aumenta e di molto anche in termini di voti assoluti, non solo in percentuale. Fi arranca e non riesce a frenare il processo di disfacimento, FdI invece aumenta. Il partito di Salvini e quello di Giorgia meloni arrivano da soli sull’orlo del 40% e oltre. Solo la crisi e nuove elezioni separano dunque Matteo Salvini dalla presidenza del consiglio.

Sembra un passo breve e quasi obbligato ma il ministro degli Interni per ora non intende muoverlo. Lo ha ripetuto alla vigilia, sabato sera, in un confronto diretto con il sottosegretario Giorgetti, che è di parere opposto e non vede l’ora di scaricare gli ingombranti e sconfitti soci a cinque stelle. Un po’ perché Salvini è convinto che sia fondamentale non assumersi la responsabilità della rottura, un po’, anzi molto, perché la debolezza dei 5S e la forza consegnata dalle urne al Pd rendono più plausibile, a fronte di una crisi della maggioranza gialloverde, l’alleanza tra Pd e 5S. A parole tutti la escludono. ma di fronte alla crisi e con il fiato dello spread e del Quirinale sul collo, le parole potrebbero contare ben poco.

Dunque la strategia di Salvini sarà quella indicata a chiare lettere da Molinari e Centinaio: nessuna crisi, nessuna richiesta di rimpasto, nessuna minaccia contro l’ormai detestato premier Conte, ma in compenso un mazzo di richieste imperiose e ultimative. Sono cinque i punti sui quali la Lega intende mettere all’incasso il risultato di ieri. Per prima cosa Salvini pretenderà di indicare il commissario europeo e negarglielo sarebbe impossibile per chiunque. Poi arriveranno i punti di programma sin qui bloccati: autonomie, Flat Tax, Pedemontana, Tav. Gli alleati si trovano nella scomodissima situazione di chi ha di fronte solo la scelta sull’albero a cui impiccarsi: la crisi e le elezioni anticipate sarebbero un suicidio, ma lo sarebbe anche accettare i diktat di Salvini.

L’ostacolo per il trionfante leghista non è a Roma ma a Bruxelles. Su quel fronte le elezioni non gli hanno consegnato il risultato auspicato. ma senza risolvere il rebus dei rapporti con la Ue la prossima legge di bilancio rischia di rivelarsi una prova infinitamente più dura di questa pur difficile campagna elettorale.