Piovono smentite, vibrate e ardenti. Il retroscena pubblicato ieri da Repubblica, con un Salvini convinto che se ci fosse la crisi di governo una nuova maggioranza Pd-M5S si formerebbe in un nanosecondo, obbliga Zingaretti e Di Maio a replicare con fieri «Giammai». Il segretario del Pd contiene i toni: «Opzione inesistente». Quello dei 5S, invece, deborda: «Mai un’alleanza con il partito di Bibbiano», e a seguire accuse varie di sessismo, giusto per dimostrare inconciliabile ostilità. L’impeto non tranquillizza Salvini, che si limita a un sibillino:«Governo Pd-M5S se cade questo? Lo chiedano agli italiani. Io sono mai preoccupato da niente».

SICUMERA OSTENTATA per dovere professionale. Quel che Salvini teme, lo spettro che aleggia in casa leghista dall’inizio dell’increscioso incidente russo, è proprio che quel governo possa nascere senza chiedere proprio niente agli italiani, con un accordo parlamentare a norma di Costituzione. Quanto sia realistica la minaccia e quanto sia soltanto frutto di paranoia da complotto è difficile dirlo. Ma è un fatto che il combinato tra voto di Strasburgo e Russiagate ha creato in pochi giorni una situazione per la Lega tanto pericolosa quanto imprevista. L’affare Savoini, al di là delle ricadute al momento flebili in patria, ha un devastante effetto delegittimante nelle capitali europee e a Bruxelles. Il voto di Strasburgo lascia la Lega isolata e prefigura, per quanto tutti si affannino a negarlo, una maggioranza «europea», M5S-Pd-Fi. E’ quel che paventavano gli alti ufficiali leghisti già da giorni. In realtà un’alleanza con il partito di Berlusconi sarebbe troppo persino per un partito terrorizzato dalle urne come l’M5S. Ma con il Pd le cose stanno diversamente, nonostante gli urli di Di Maio.

IL CAPOGRUPPO DI IDENTITÀ e Democrazia,il gruppo di cui fa parte la Lega all’Europarlamento, è furioso per la sterzata dei 5S: «Hanno votato con Renzi, Merkel e Macron. Noi invece non scambiamo il nostro voto con una poltrona». E Salvini, di rincalzo: «Sono orgoglioso dei nostri europarlamentari». I 5S si difendono spiegando che non si poteva lasciare l’intero governo italiano fuori dalla maggioranza europea. Sfidando il ridicolo, assicurano che «Ci sono gli estremi per una commissione del cambiamento». Ma poi, in aula, piantano in asso la Lega nel dibattito sulla Sea Watch 3 e approdano su posizioni di adamantino europeismo, esaltando la posizione ragionevole di Moavero, ben diversa da quella ringhiosa del leghista.

ANCHE CONTE, REGISTA con Angela Merkel dell’operazione che ha traghettato i 5S dal gruppo con un Farage oggi furioso all’appoggio a Ursula Von der Leyen, giustifica il suo operato con l’essersi «mosso nell’interesse degli italiani». Pieno rispetto per la Lega che «ha fatto le sue valutazioni», ma quanto alle trattative per il commissario chissà: «Non so dire se il voto della Lega le comprometta. Si vedrà». Ma lontano dai microfoni a palazzo Chigi riconoscono senza esitazioni che la spaccatura di Strasburgo ha reso la marcia di Giorgetti ben più ardua. Se dovesse finire con un commissario, anzi con una commissaria pescata in area della maggioranza europea, «M5S e Pd», come per esempio la ministra Trenta sostituita poi alla Difesa da un leghista, l’incidente sarebbe clamoroso e rafforzerebbe ulteriormente la convinzione, ormai diffusa in tutta la Lega tranne che nel capo, che sia il caso di staccare la spina prima che sia troppo tardi.

Salvini resiste e soprattutto potrebbe già essere troppo tardi. Sfumata la possibilità di votare in settembre e con la maggioranza di Bruxelles che, in caso di crisi, spunterebbe certamente fuori, la Lega si trova oggi nella scomoda posizione di svantaggio nella quale si dibattevano i 5S subito dopo le elezioni europee. Né Di Maio né Conte intendono rinunciare a sfruttare quanto più possibile il momento aureo. Di banchi di prova, di qui alla pausa estiva, ce ne saranno parecchi.

IL PIÙ FRAGOROSO È l’appuntamento del 24 luglio al Senato per la relazione di Conte sull’affaire russo. Da palazzo Chigi già chiariscono che se Salvini si aspetta che l’avvocato gli faccia da difensore s’illude. Avrebbe dovuto affrontare lui il Parlamento. Se si rifiuta non può chiedere che altri lo facciano al suo posto. Conte considera anche l’ipotesi di scrivere al ministro degli Interni chiedendogli «trasparenza». La risposta è arrivata già: «Se ha voglia e tempo lo faccia. Io posso rispondere in mail, whatsapp o su carta che non abbiamo né preso né chiesto un euro». Ma non c’è solo l’Hotel Metropol di Mosca. La marcia delle autonomie, che Salvini sognava fulminea, prosegue lentissima. Il vertice di domani, salvo miracoli, sarà un’altra fumata nera. Sulla Flat Tax fioccano i distinguo di Di Maio. L’intenzione di trasformare la marcia trionfale del leghista in una via crucis è conclamata.