Non sono pochi i nostalgici del vecchio leader: sono tanti i negozi palestinesi che vicino alla cassa hanno appeso il poster con il volto di Yasser Arafat. Tante anche le voci critiche, quelle che si alzano sia tra gli attivisti che tra i membri dei partiti politici, da Fatah al Fronte Popolare, per cui «ci sono stati due Arafat, quello prima di Oslo e quello dopo Oslo». Rispetto per il primo, disapprovazione per il secondo.

Ma cosa resta dell’eredità del grande leader palestinese, oggi, nelle stanze dei bottoni palestinesi e all’interno dei partiti nazionali? Ne abbiamo parlato con lo scrittore e analista Nassar Ibrahim, direttore dell’Alternative Information Center.

Arafat, la sua strategia e il suo approccio politico sono ancora presenti all’interno di Fatah e nel mondo politico palestinese in generale?
Oggi per i palestinesi è momento di commemorazione per il vecchio leader, in un delicato momento storico. Seppure siano molte le critiche verso Arafat, la situazione a Gerusalemme e a Gaza, l’allontanarsi del diritto all’autodeterminazione e la durezza delle politiche israeliane fanno sì che la nostalgia per la vecchia leadership oggi sia più forte.

Arafat è considerato uno dei capi palestinesi più pragmatici, elastico nelle sue politiche, ma che non ha mai messo in discussione i diritti nazionali palestinesi. Oggi se ne sente la mancanza perché le performance dell’attuale leadership sulle questioni centrali del conflitto non hanno alcuna capacità di modificare lo status quo, dal processo di riconciliazione con Hamas fino alla reazione verso le politiche israeliane. Dal 2007 parlano molto, ma non fanno nulla, giocano sulle divisioni politiche per mantenere potere personale e reagiscono alle politiche israeliane con promesse senza fondamento.

Cosa frena la nuova leadership?
In realtà una leadership vera non esiste e questo fa da freno alle ambizioni collettive del popolo palestinese. Manca una strategia politica che unisca il movimento nazionale palestinese, una visione di lungo periodo rispetto ai tempi di Arafat. È una leadership fredda, congelata, se la paragoniamo a quella israeliana, ma anche se messa a confronto con l’attuale situazione sul terreno, fatta sia di espansione coloniale selvaggia, attacchi contro Gaza, discriminazioni strutturali dentro Israele, che di un movimento di base che preme per agire, per combattere di nuovo, che la si voglia chiamare Intifada o no.

A frenare la leadership sono le divisioni politiche interne, che sembrano assorbire più tempo del necessario, e l’allontanamento dalla base, in termini non solo politici ma anche sociali ed economici, che spinge certi leader a gestire lo status quo per garantirsi potere e interessi personali.

Senza dimenticare il ruolo della comunità internazionale e le precondizioni imposte per garantire gli aiuti e la sopravvivenza dell’Anp.
La responsabilità dell’attuale immobilismo è di tutti i partiti politici, non solo dell’Anp. L’Autorità Palestinese è un mero strumento ma non ha reale potere decisionale. È uno strumento nelle mani dei partiti, Fatah in testa. E tutte le fazioni politiche sembrano oggi più attente a non contraddire le posizioni della comunità internazionale piuttosto che dell’opinione pubblica palestinese: mentre Israele non ascolta nemmeno le richieste internazionali, l’Anp corre dietro alle condizioni poste da fuori, per garantirsi gli aiuti. Questo fa sì che ogni volta che si promette un’azione a livello internazionale, all’Onu o alla Corte Penale, si tira subito il freno.

Nonostante le critiche per aver firmato gli Accordi di Oslo, Arafat è ancora considerato un leader vicino alla base?
Dalla morte di Arafat molte cose sono cambiate, lui stesso era il prodotto di un determinato momento storico. Andò al processo di pace, si sedette al tavolo del negoziato e commise errori, ma fu sempre capace di sentire le spinte popolari. Al contrario l’attuale leadership si comporta da Stato anche se non lo è e usa il negoziato come obiettivo finale e non come strumento.