Oggi che non è più tempo di retrospettive complete di quelle che al festival di Torino erano veramente imperdibili, oggi che in qualche modo tutti possono vedere tutto, il programma dell’edizione 34 del Torino Film Festival diretto da Emanuela Martini potrebbe perfino apaprire fin troppo equilibrato, ben organizzato (in sintonia con la città) con i suoi percorsi che bilanciano una Festa Mobile per tutto il pubblico senza tralasciare nomi da asterisco, l’horror e il punk per adolescenti, i classici degli anni ’60, le onde sperimentali. Ma non lasciamoci ingannare da questo apparente equilibrio: lo spirito cinéphile dle festival scorre tra le fila del programma pronto ad esplodere (e non dimenticate di vedere le suggestioni che legano Leo Gabin a Harmony Korine in A Crackup, in questo senso un film come un segnale).
Segnaliamo in queste pagine alcuni percorsi da seguire, i documentari, i classici che poi sono le opere più sperimentali, le finestre aperte sul futuro.
Qui incontriamo Carlo Michele Schirinzi più volte premiato a Torino (tra gli altri per Notturno stenopeico nel 2009) in occasione di Eclisse senza cielo il suo ultimo film in programma nella sezione Onde (a cura di Massimo Causo) prima proiezione domenica 20 al cinema Massimo Sala 2 alle ore 19.45. Abbiamo spesso seguito nei suoi lavori le tracce «visibili» di qualcosa che non possiamo più osservare (e il Salento che è la sua terra di origine può mettere in moto vorticosamente certi echi, lo abbiamo visto in Carmelo Bene che di Schirinzi è uno dei punti di riferimento) forte di un originale rigore estetico.
Ovvero, nel caso di Eclisse senza cielo, come la superficie possa diventare terza e quarta dimensione: la superficie di un quadro e insieme in questo caso, lo schermo. Un artista al lavoro nel suo studio, nel silenzio assoluto, dove solo scricchiolii della materia, rumore di lama che incide, fiamma ossidrica che lampeggia accompagnano il gesto. Girato senza troupe, ci dice, con la sola telecamera cavalletto e microfono a riprendere gocce che cadono e raschi sulla materia, e i suoi filtri (vetri, lenti, specchi) che invece di mantenere le distanze sembrano annullarle.
Il mistero della creazione se non è svelato è accolto con stupore.
Chi è l’artista che vediamo nel tuo film?
Romano Sambati, uno degli artisti più poetici che esistano, vive defilato nelle campagne intorno a Lecce, ne I Resti di Bisanzio interpretava il terrorista culturale.
Mi è sembrato che ci fosse una grande affinità tra la sua arte e la tua, un simile modo di essere e di procedere rispetto alla creatività
E’ stato il mio professore di disegno ornato al liceo artistico. Ricordo il suo silenzio durante le ore di lezione, in due anni ha parlato pochissime volte e in una di queste di Parmenide che nessuno di noi conosceva. I suoi silenzi ci spingevano sul ciglio del baratro e sembravano suggerirci che la poesia era la nostra unica salvezza. Quando ci siamo ritrovati dopo quindici anni, sentivo d’avere un debito verso colui che aveva segnato la mia vita. Se nel film non plasmasse la materia, il pubblico vedrebbe in Romano un signore solitario che, chiuso nel suo covo, attende silenziosamente qualcosa che non arriverà mai. Non sono interessato al profilo filologico o storico delle cose ma alla loro materia e, anche in questo caso, l’artista non eclissa l’uomo: i momenti in cui è steso sullo sdraio, fermo nel buio, sono le inquadrature che sento più vicine, molto più di quelle in cui opera.
Quindi un legame molto forte
È stato il mio primo padre artistico ancor prima di Bene, Artaud, Brakhage. Come tutti gli artistoidi adolescenti di provincia, durante il liceo ero attratto dai temi sessuali delle opere di Dalì, i lavori di Sambati che alcuni di noi riuscirono a spiare su un depliant di una sua personale in Francia, furono un colpo allo stomaco ed ebbero lo stesso effetto che anni più tardi avrebbe avuto Tarkovskij. Con Sambati imparai ad amare Giorgio Morandi, Osvaldo Licini, a leggere l’Arte Greca come la più grande forma d’arte astratta mai esistita, capii soprattutto che per comunicare non sempre serve accanirsi sulle figure o sulle parole.
Certo la visione del cielo dal Salento appare più vicina, poche luci interferiscono
Con la natura ho un rapporto particolare: o c’è ed è totale, a tutto schermo, o è del tutto assente, non possono esistere mediazioni, non ci sono mai orizzonti. La natura «vera» è stata esclusa a priori da questo film e compare timidamente nel tentativo di copiare le opere di Romano, i cieli e i paesaggi che vediamo sono quelli impressi nelle sue tele: la natura è nelle polveri delle sue terre e delle sue materie. Torno a pensare all’inizio di Capricci di Carmelo Bene dove il vecchio è in posa come Cristo in croce mentre il pittore colora la realtà copiando dai quadri: anche qui è la natura a copiare l’arte. Sambati è sempre stato un puro sperimentatore e quando andavamo alle sue mostre ci interrogavamo inutilmente sulla sua tecnica, non si tratta di pittura nel senso tradizionale del termine, è più simile al processo chimico di un alchimista, forme e colori non sono generate dall’azione del pennello, sembrano quasi impressioni su pellicola, immagini latenti da cinema analogico. Ancora una volta si agisce per sottrazione, per asportazione.
In che senso impressione sulla pellicola?
Romano stende il colore senza pennelli per poi riesumare immagini mediante gli strappi di superfici, in uno scatto fotografico analogico succede quasi la stessa cosa, la luce impressiona e la chimica fa il resto, la fatalità del caso è simile. Quando asporta l’epidermide cartacea, la limpidezza dei cieli o la profondità di certi neri sono una sorpresa anche per lui, non si può tornare indietro o correggere. Mala Luna, Preghiera del Morente, Icaro, Angelo senza Dio, Eclissi, alcuni titoli di suoi lavori che ritroviamo nel film.
Mentre lui lavora tu filmi con lo stesso procedimento di scoperta
Il gusto della documentazione di qualcosa che si svolge non mi interessa perché non sono uno storico dell’arte. Chi non conosce Sambati deve studiarlo, vedere dal vero la sua ricerca, il mio film non restituisce neanche un grammo della sensazione che si prova davanti alle sue opere. Essendo un personaggio laterale e donchisciottesco, era necessario respirare e far respirare la sua stessa aria, condividere le sue attese senza spiegare a tutti i costi ogni passo del suo lavoro e della sua biografia. Ho cercato di utilizzare un linguaggio simile muovendo le mani come le sue per stabilire una simbiosi tra l’occhio che guarda e la cosa osservata, filmando la sua opera in modo attinente al suo fare, vicinissimo alla materia, quasi al suo interno, con i suoi strappi chirurgici.
Anche tu fai degli stacchi precisi, i neri tra una scena e l’altra ad esempio
Sì, stacchi netti con poche dissolvenze e salti dell’immagine mediante i miei filtri analogici. Ciò che più mi ha colpito è il suo continuo strappare. Il secondo paragrafo del film si chiama «Nudo» ma per esser veramente nudi bisogna tirar via anche la pelle che è un ulteriore vestito del corpo, o dell’anima. In alcuni momenti di questo nauseante scalpo che compie, il corpo delle sue tele è veramente nudo, privo di protezioni come un Icaro che precipita rovinosamente nelle polveri buie, mentre lame di luce a singhiozzi affettano la nostra vista.
Degli Icaro che cadono bruciati perché hanno toccato il sole e che rovinano per terra, il finale del film è un po’ questo, un omaggio spudorato a Brakhage, una lama di luce che gli cade addosso per bruciarlo completamente.