Senza scomodare i classici dell’economia politica (tra i quali va annoverato, tra gli italiani, lo studio di Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino, Feltrinelli) e ignorando il valore propagandista dei vari dirigenti cinesi, la Cina segnala una variante del capitalismo neoliberista ma dove lo stato-nazione rivendica un ruolo «pastorale» nel governare la società e il regime di accumulazione capitalista. Siamo cioè di fronte a una variazione del modello dominante di capitalismo che ha ambizioni egemoniche e che viene guardato con interesse da paesi emergenti nella globalizzazione, come l’India, il Sudafrica, il Brasile. Realtà nazionali che non vogliono importare passivamente nessun modello preconfezionato, ma che si apprestato a «tradurre» localmente dispositivi politici e economici che altrove hanno funzionato. Lo stesso cioè di quello che sta facendo la Cina rispetto al modello anglosassone. È la vecchia questione della compresenza di modelli diversi di accumulazione capitalista. La crisi del 2007-2008 ha messo in evidenza che nella globalizzazione economica è in azione un doppio movimento: omogenità del capitalismo – non può esistere un fuori ad esso – e allo stesso tempo, differenziazione dei modelli, in un continuo adattamento locale del modello dominante. Temi che sono tutti discussi a livello economico e nei centri di potere che «contano», ma che hanno un riflesso pallido, al limite dell’insignificante nella «provincia italiana».

Se si articolano meglio le astrazioni reali operanti in questi anni di crisi, il discorso diventa ancora più evidente. Il caso dei progetti cinesi sull’Intelligenza artificiale è esemplificativo dell’emergere di un modello sociale, politico e economico che vuol esercitare un potere globale nella globalizzazione. La Cina ha tre imprese di eccellenza che da anni investono in software che utilizzano tecniche e modelli derivati dalla ricerca sull’intelligenza artificiale.

Sono il motore di ricerca Baidu, la società di commercio Alibaba (che fa molte altre cose) e WeChat (ibrido tra Facebook e Twitter e molto di più) che negli anni hanno fatto una politica di catch up, cioè di reperimento di tecnologie e software sul mercato.

È stato l’anno nel quale il presidente Xi Jinping ha indicato nell’Intelligenza artificiale il settore strategico dove la Cina deve raggiungere una posizione egemone nel mondo intero. Narra la leggenda che l’accelerazione sia stato voluta dopo che era stata diffusa la notizia che Google, attraverso il suo Deep Mind (un insieme di hardware e soprattutto di software) aveva battuto due maestri di Go, il popolare gioco cinese di strategia da tavolo.

Finora tutti i tentativi della macchine di battere gli umani erano falliti. L’annuncio che una macchina aveva vinto ha costituito uno spartiacque nell’Intelligenza artificiale, assegnando al machine learning e ai Big data il palmares dell’Intelligenza artificiale. Per i cinesi, invece, ha costituito l’espediente retorico usato per mettere ordine a piani di ricerca e sviluppo attorno alla big technology.
I programmi di intervento statale nella tecnologia prevedono investimenti in ricerca e sviluppo, sostegno alle imprese, una politica di circolazione in tutto il settore economico delle conoscenze scientifiche acquisite e una normativa chiara sulla proprietà intellettuale. Su questo ultimo aspetto, la Cina, con l’entrata nel Wto, ha acquisito i trattati internazionale sulla proprietà internazionale. Per gli altri aspetti, nell’ordine: entro il 2020 la Cina investirà oltre 150 miliardi di dollari per formare ingegneri, fisici, matematici, computer scientists.

Altri 120 miliardi li investirà per sviluppare software, microprocessori capaci di far funzionare quei software. Il progetto avrà un coordinamento presso un National council, mentre i governi regionali e locali avranno il compito di monitorare e sorvegliare l’avanzamento del progetto laddove sono coinvolte imprese e università locali. Nel progetto sono previsti piani di finanziamento anche per le start up che si formeranno (1,5 miliardi all’anno), anche se non sono esclusi piani di reperimento fondi attraverso forme inedite di crowdsourcing basate sul partnership tra pubblico e privato. Infine una politica di rientro dei «cervelli» cinesi che hanno frequentato università americane o di un altro paese e progammi capillari di insegnamento dell’inglese, lingua ormai madre nella ricerca e sviluppo.

Un progetto ambizioso dunque. I cinesi sono convinti di recuperare il terreno perduto. Secondo gli standard internazionali, l’egemonia degli Stati uniti nell’intelligenza artificiale è indiscutibile. Secondo una speciale percentuale, gli Usa hanno il 33 per cento della performance globale, mentre la Cina il 17 per cento, il resto spetta a Europa (che ha lanciato un progetto comunitario che coinvolge i paesi dell’Unione europea), l’Inghilterra e il Giappone.

Sta di fatto – però – che quella della Cina si presenta come un modello inedito di «stato sviluppista» che coniuga libero mercato e ruolo protagonista di indirizzo da parte dello stato-nazione.

L’economista Mariana Mazzucato, considerata una delle migliori analiste del rapporto tra politica e economia nella ricerca scientifica, ritiene le scelte di Pechino lungimiranti, capace di costruire una egemonia economica nel corsa di un decennio. È questa la grande convergenza che la crisi del 2008 ha avviato: uno stato nazione rinnovato nelle sue funzioni e un’economia di mercato basata sull’intreccio tra materiale e immateriale con la predominanza di quest’ultimo. Tenuto conto che in questo frangente la democrazia è messa in secondo piano. Insomma, più che un socialismo di mercato, la Cina rappresenta un modello di capitalismo neoliberista basato sull’autoritarismo. Con una particolarità. A livello globale la Cina ama il soft power all’ostentazione di portaerei o missili intercontinentali. Almeno per ora.