Il V&A Museum, in crescita impetuosa nell’ultimo decennio sotto la direzione di Moira Gemmil, ha saputo imboccare una strada di rinnovamento che gli ha definitivamente tolto l’aura di museo del «nuovo-vecchio». Mostre come Disobedient object (in corso fino al 1 febbraio 2015) sembrano riannodare il rapporto operativo con la contemporaneità, che è stato il motore originale della fondazione del museo.
Il portale del V&A Museum ci accoglie con due patchwork ceramici collocati sopra le iscrizioni ai lati dell’ingresso. A colpo d’occhio, la ridondanza della tecnica si associa con familiarità all’architettura eclettica della facciata ma, passandogli accanto, ci si accorge che i frammenti di ceramica contengono fotografie di poliziotti che picchiano, di manifestanti «buoni» e di manifestanti arrabbiati e così via.
Lo scudo di un manifestante (un book bloc shield) campeggia al centro del pannello, come uno stemma coronato da raggi di manganelli e telecamere. C’è anche un motto e una citazione: History is a weapon (nothing is inevitable / everything is possible; e sul pannello opposto: «Power to the people (art is not a mirror that reflect the world/rather it is a hammer with which to shape it).
Sono i due mosaici di Carrie Reichardt che annunciano la mostra Disobedient object; un tentativo interessante, coraggioso e gravido di contraddizioni di indagare l’universo degli oggetti, e delle forme, che accompagna quella parte di mondo che va sotto il nome di «disobbedienza» e attraversa sia le stratificazioni sociali sia i singoli individui.
All’interno, allestita in una grande sala dove l’interferenza tra le cose è la regola, si intersecano le quattro sezioni: Direct Action, Speaking Out, Making Worlds Solidarity. Una sezione finale, A Multitude of Struggles, propone alcuni casi di studio. Il periodo indagato è principalmente l’ultimo ventennio con incursioni fino agli anni Sessanta del secolo scorso.
Un pubblico di ogni età, ma con una presenza dominante di giovani e giovanissimi, attento e assorto come non si vede in una mostra su Tiziano, guarda come si realizza una maschera antigas con una bottiglia di Pet, un filmato sull’occupazione delle banche spagnole durante la crisi dei mutui, un’evasione di massa da un centro di detenzione per immigrati. Il pubblico, gli oggetti esposti, i disegni e i meccanismi delineano un insieme dotato di una certa coerenza. Ragazze giovanissime, adolescenti di primo pelo, ma anche anziani completamente curvati, sembrano essere parte indissolubile di uno scontro violento che attraversa le coscienze prima ancora che le piazze. Non è la forza fisica a fare da collante tra questa umanità e il materiale esposto, ma qualche altra cosa che ha a che fare con i contenuti, l’orizzonte del sentimento, il senso della giustizia, l’idea di un altro mondo possibile. L’impressione è che il pubblico, che sarebbe meglio definire «partecipante», nella relazione con il materiale esposto non stia svolgendo un’attività contemplativa, o meramente informativa, ma stia indagando su se stesso e sul significato delle propria posizione nel mondo.
Gli oggetti che provengono dall’universo del non conforme, tanto grande quanto poco visibile, scompaiono rapidamente e sopravvivono solo quelli che il mercato, con la sua potenza irresistibile, incorpora nel suo meccanismo. I murales miliardari, per citare solo il caso più noto.
Qui abbiamo la possibilità di toccare con mano la flagranza di eventi e fatti che si producono quotidianamente senza uno scopo mercantile, ma per motivi funzionali alla definizione di un contesto culturale. Oggetti che sono parte integrante di forme culturali in formazione; in antropologia probabilmente sarebbero definiti «industria».
In questo senso è una delle rare volte in cui la massa di documentazione video, proiettata o trasmessa su monitor che lavorano in continuazione e in simultanea, non è un orpello dovuto ma trascurabile. I video costruiscono il fondo sonoro e visivo di una mostra che non vuole, e non deve, essere una semplice rassegna di oggetti.
La relazione tra forma e contesto è uno dei problemi chiave dell’istituzione museale, problema il più delle volte risolto a favore della forma. Si vedono buoni, e meno buoni, esempi di allestimenti multimediali che tentano di riordinare i fili del contesto, ma spesso l’esito è didattico e passivo, come quando sfogliamo distrattamente una bella rivista illustrata. Nel caso di questa mostra la presa sulla contemporaneità è sostenuta dalla dimensione collettiva della produzione che sottrae, non sappiamo ancora per quanto, gli oggetti al loro destino di opere. Questo permette di guardarli come una parte di un evento dove ci siamo anche noi.
Gli oggetti esposti non solo delineano un mondo che, simultaneamente, si oppone, si sovrappone ed è tangente a quello delle forme codificato, ma iniziano anche a sfuggire a se stessi. Non sono solo la rappresentazione e lo strumento della disobbedienza, ma sono essi stessi disobbedienti al loro scopo originale e trovano nuove significazioni con un procedimento che, in altre epoche e contesti, animava la realizzazione del Merzbau di Kurt Schwitters o le armi di Pino Pascali.
Si apre, su questo versante, una importante relazione con la forma che, irriducibile al solo scopo funzionale, riannoda in continuazione i mille fili della modernità che spesso proprio le istituzioni museali hanno contribuito a banalizzare in una versione, al fondo, di stampo contemplativo.
Quasi in opposizione a questo, e negli stessi giorni, si svolge una bella e ricca mostra sull’opera di Malevich alla Tate Modern dove, tra l’altro, è riproposto l’allestimento dell’Ultima mostra futurista 0.10 del 1915 a Pietrogrado; ma, nonostante le opere originali, questo allestimento perde il confronto con l’unica fotografia che conosciamo dell’evento. La bianca sala del museo, l’illuminazione perfetta, il biglietto esoso e, soprattutto, la mancanza della seggiola del custode presente nella foto, sterilizzano definitivamente l’evento.
A margine va notato che, anche se la rassegna Disobedient object è animata da una volontà documentaria molto attenta ai contenuti, emergono in continuazione determinazioni stilistiche fortemente riconoscibili. Ogni oggetto, e ogni manipolazione di oggetto, ci dice che la forma esteriore non è mai un prodotto esclusivamente funzionale ma vi si incorpora sempre la sua funzione comunicativa. Le tute bianche che tagliano le reti dei Ctp, i pupazzi Maya/cubisti a Cancun, i cubi gonfiabili che rotolano tra polizia e manifestanti a Barcellona, fino alle felpe nere dei Black Bloc.
Lo scontro con le istituzioni non è solo guerriglia, ma una vera messa in scena dove forme, abiti, tecniche di movimento, suoni, colori rappresentano il conflitto. Il luogo dello scontro, come nella scena urbana seicentesca, è il palcoscenico in cui tutti sono attori e spettatori.

http://youtu.be/G9CNGNcbblw