Sesso, adolescenti, famiglia ma soprattutto sesso, e «persino» esibito, è così che l’edizione 66 del festival di Cannes passerà alla storia. Ma è davvero sesso come sensualità? O piuttosto non è che l’affermazione di un’impotenza, il fantasma di un maschile che disperatamente si appiglia al genere con sensi di colpa, derisione, banalità, schematismo di classe. Che sfigura i propri personaggi, meglio se donne, li ridicolizza, li rende stereotipi delle proprie frustrazioni. Ci si è tanto scandalizzati delle dichiarazioni di François Ozon – che ha fatto disperata marcia indietro giocandosi però ormai la faccia – «Tutte le donne fantasticano di prostituirsi» . La sua ragazzina Jeune et Jolie, «Giovane e carina» però, che si prostituisce per sperimentare e non per soldi, versione d’oltralpe di Melissa P. – e il film di Luca Guadagnino aveva già detto tutto – è una Bella di giorno algida e adorata, dove Isabelle c’est moi, il regista stesso, che si diverte a provocare coi suoi fantasmi mettendosi dalla parte del suo personaggio.
L’opposto del sentimento di frustrazione vendicativa che attraversa un film come quello di Winding Refn, versione thai degli Atiridi, e dell’Edipo da uccidere perché è a causa della madre se i due fratelli sono psicopatici e voyeur. E persino Kechiche che si incolla alla sua Adele, con le scena madre (qui sulla Croisette) del sesso fra le due donne, una sorta di catalogo compulsivo e compiaciuto di pose artistiche che non carezza mai i loro corpi, e li svuota di erotismo e di piacere. Per non dire del punitivo Farhadi (Le passé), con le sue figure di donne (e di uomini) squallidamente invischiati nel senso di colpa dell’ottusità. Quanto poco piacere c’è nell’idea di sesso sulla Croisette (e come si filmano male le scene d’amore), che è più che altro espressione di un cinema autoritario, che soggioga lo spettatore obbligando il suo sguardo svuotato di vibrazioni tattili e emotive dentro macchine infernali con cui torture i propri personaggi.

Ed ecco che l’ultimo giorno i nostri occhi ormai fotosensibili si risvegliano davanti alla Venere in pelliccia, capolavoro di Roman Polanski, il «vecchio maestro» che di sensualità e erotismo e piaceri conosce i segreti e le profonde intimità, il rischio del godimento e della vita, e ha pagato molto per questo. La Venus à la Fourrure è un magnifico gesto d’amore per il cinema vivo e per la sensualità, che sembra quasi smascherare nel suo chiudere il festival tutto l’ immaginario esibito con compiacimento questi giorni. Un immaginario di potere e di frustrazione, di chiesa e di giustizia. Polanski ci regala invece un film erotico e politico, perché politica è la sessualità, in rivolta contro i fondamentalismi (gli stessi che lo hanno condannato).
Il punto di partenza è come già nel precedente Carnage una pièce teatrale, lì era Yasmina Reza, qui è un testo di David Ives che a sua volta si è ispirato al romanzo di Sacher Masoch. E la dimensione «da camera», che in questo film è affermata anche dal luogo, un teatro vuoto, e il confronto tra un’attrice e un regista, permette a Polanski di spingere ancora più all’estremo il suo cinema di interni come forma di visualità sontuosa, che non ha bisogno di esibirsi in inutili virtuosismi, ma esprime sensualità e piacere nei suoi movimento impercettibili e sublimi.

Thomas (Mathieu Amalric) cerca disperatamente l’attrice giusta per il ruolo di Vanda von Dunajew, la donna che stipula un contratto di dominio e sottomissione con Gregor, pseudonimo di Sacher Masoch, di cui Thomas ha rivisitato l’universo. Ma le aspiranti candidate sono nulle, si lamenta al telefono. E nel teatro vuoto, e fuori orario, arriva una strana tipa, dice di chiamarsi Vanda (Emmanuelle Seigner, Palma d’oro assoluta), il trucco le cola, ha un look sadomaso, non sembra molto colta e nemmeno avere grande esperienza. Per lei Sacher Masoch e S&M e la Venere Venus in Furs di Lou Reed. Però in mano ha il copione, e tira fuori vestiti d’epoca ma soprattutto quando inizia a dire le battute scatta qualcosa, è lei. A quel punto il duetto si trasforma nella messa in atto della relazione che è nel testo, la finzione della prova è continuamente rotta dalle digressioni della realtà: i commenti della donna all’immagine femminile che mostra, le telefonate della fidanzata del regista, le provocazione di Vanda che piano piano comincia a condurre il gioco.

Chi è il regista? Chi domina e chi è dominato? I ruoli si ribaltano, e Vanda occupa sempre più la scena fino a che Thomas – Amalric che sembra Polanski ai tempi di L’inquilino del terzo piano – diviene Vanda legato e tremante di fronte al suo stesso desiderio. La donna, il femminile, è Venere, Afrodite, sono le Baccanti gioiose e prorompenti che quel maschile sanno denudare nella sua crudele inadeguatezza.

Il personaggio si ribella, parla di femminismo, invoca la credibilità. Il regista rifiuta la sociologia delle interpretazione l’arte deve essere arte. Lei lo schernisce nella sua sicurezza di una fidanzata come si deve, che lo aspetta a casa, con cui guardano Arte e si sentono così appagati nel loro essere «culturali». [do action=”citazione”]Polanski ama le donne, e ama la libertà del piacere. Il corpo a corpo tra i due dentro e fuori il testo, nel gioco di riflessi tra «vero» e «falso», riflette sul rapporto tra l’autore e la sua ispirazione, tra il regista e l’attore, ma è soprattutto l’affermazione di un cinema mai celibe contro lo stereotipo di mode, sociologie, contro un’immagine femminile (e perciò maschile) degradata, contro una sessualità di plastica, contro le trasgressioni fasulle e compiaciute.[/do]

E in questa Venere in pelliccia (a cui si ispirò anche Jesus Franco) uno dopo l’altro cadono mode e luoghi comuni dei sadomasochismi ridotti a puro involucro, e di quella sessualità «a modo» che basta non dia fastidio però anche quando si presenta come «scabrosa». Il controllo, il dominio, la manipolazione: irridente attraverso i corpi amatissimi degli attori, Polanski provoca e interroga l’immaginario. Liberandolo dalle gabbie nell’edonismo della sua Baccante, che alla fine grida e scompare con la sua pelliccia. Il regista è spaesato dalla vita, noi spettatori siamo finalmente liberati dalle interpretazioni. Il cinema è potente, sensuale. La sua Afrodite ce l’ha finalmente restituito.