Si dovrà attendere la Conferenza stampa di oggi, alla fine della due giorni romana, per rivedere o risentire la parola Afghanistan risuonare nel comunicato congiunto finale o nella sintesi che ne farà Mario Draghi.

EFFETTIVAMENTE SUL PIATTO del summit ci sono molte urgenze a cominciare dal clima e, in fondo, al Paese dell’Hindukush non si è forse già regalato un G20 ad hoc due settimane fa? Un’iniziativa lodevole ma con risultati scarsi – a cominciare dal balletto dei soldi, del tratto o non tratto coi Talebani, dell’accolgo ed evacuo ma respingo – che hanno caratterizzato soprattutto l’agire europeo da metà agosto ad oggi. Con corollario di muri eretti per frenare l’esodo: esodo invocato per far scappare dai cattivi ma nei fatti frenato perché, in fondo, abbiamo già dato. A due mesi e mezzo dalla caduta di Kabul infatti ancora manca la firma ufficiale, almeno per l’Italia, sul protocollo che dovrebbe far partire gli attesi corridoi umanitari per almeno 1200 afgani. L’Onu ne chiede 5 volte tanto.

IL MONDO NEL SUO COMPLESSO, nonostante l’ennesimo allarme Onu su una catastrofe imminente – sembra voler dimenticare rapidamente quella parentesi durata vent’anni e costata – solo a noi – circa 9miliardi per il 95% devoluti alla spesa militare. Europa e Stati uniti, gli attori della ventennale avventura, si muovono del resto in ordine sparso. Gli Usa continuano a promettere soldi e relazioni con l’Emirato e sono forse l’unico Paese ad aver ammesso la sconfitta, pur in un esercizio di scaricabarile da presidente a presidente, dalla Difesa all’intelligence, dal capo negoziatore Khalilzad all’ex presidente Ashraf Ghani, reo di aver fatto saltare il banco – come ha spiegato il diplomatico afghano-americano – rimanendo abbarbicato alla poltrona lasciata solo per un aereo con destinazione Golfo.

Venerdì il segretario di Stato Antony Blixen ha annunciato 144 milioni di $ in aiuti alla popolazione afghana: la dichiarazione farebbe colpo se non si trattasse sempre degli stessi fondi (35 milioni promessi all’Onu, portati a 100 nel G20 Afghanistan e adesso saliti a 144) che al momento sono in gran parte solo sul tavolo delle promesse perché sono pochi i quattrini stanziati e davvero partiti per il Paese. E restano congelati i fondi dell’ormai ex Repubblica che continuano a restare materia di scambio, condizionati ai voleri dell’ex padrone di casa.

Sulla trattativa ognuno va per suo conto, sui tavoli di Doha – dove ha sede la prima ambasciata aperta dai Talebani – o anche a Kabul dove i britannici si sono recati quasi subito. Anche i tedeschi si sono mossi e le informazioni dal campo dicono di un’organizzazione teutonica che sta consentendo a chi vuole di lasciare il Paese, con un accordo coi Talebani e a spese di Berlino. Un “ognun per sé” molto lontano da quel multilateralismo invocato da Draghi e che invece caratterizzava un’occupazione militare in cui tutti rispondevano “signorsì” a ogni iniziativa promossa dal dominus americano.

QUALCUNO SI È MOSSO più compatto. I russi con un’iniziativa a Mosca e poi Teheran che due giorni fa ha concluso la sua conferenza sull’Afghanistan. I Paesi della regione – e i due grandi protagonisti internazionali cinesi e russi – fanno la loro parte. Con meno diktat e semmai inviti (a creare un governo più inclusivo per esempio). Con prudenza, ma riconoscendo pragmaticamente la realtà. Il prossimo summit di questo nuovo polo regionale sarà in Cina. Tutti tavoli da cui siamo esclusi così come, per altro, erano stati esclusi dal G20 Afghanistan, Pakistan e Iran.

UNA VERA POLITICA sull’Afghanistan insomma non c’è. C’è la preoccupazione di un’ondata di profughi, per cui resta importante corteggiare soprattutto il sultano di Ankara, e c’è quella sullo Stato islamico, timore condiviso anche sui tavoli regionali. Ma cosa intendiamo davvero fare con e per quel Paese è una nebulosa. Anzi una nuvola. Dopo aver perso la guerra, per tornare in Italia, sarebbe stato interessante almeno un dibattito parlamentare pubblico: sulla sconfitta, sulla scelta iniziale, sul futuro, sulle responsabilità. È vero che il silenzio è d’oro ma è volte è solo il segno di un imbarazzo che fa nascondere la testa sotto la sabbia. L’unica cosa che non manca nei deserti afghani.