Questa è la Siria dei «buchi neri», un conflitto con un campo gravitazionale così intenso che non se ne vede la fine. La guerra siriana proprio non si esaurisce all’orizzonte del modesto villaggio di Al Baghouz, sull’Eufrate.

Dove le forze curdo-arabe hanno assediato l’ultima sacca di un Califfato che a un certo punto controllava migliaia di chilometri quadrati a cavallo tra Iraq e Siria e la vita di quasi nove milioni di persone.

Al culmine della sua potenza ho potuto vedere sventolare la bandiera nera a 15 chilometri dal centro di Damasco, a 70 da quello di Baghdad, a 40 minuti di auto dalla capitale curda irachena di Erbil, a Makmour, dove proprio ieri l’Isis ha fatto fuori 6 miliziani delle forze sciite. E nella roccaforte dei curdi siriani a Kobane, nell’ottobre 2014, il vessillo di Al Baghdadi era di fronte, dall’altra parte della strada.

Dal buco nero di Al Baghouz vediamo emergere, insieme a centinaia di cadaveri di donne e vittime yazide nelle fosse comuni, i prigionieri dell’Isis e le loro famiglie. Le mogli dei jihadisti accusano ad alta voce gli americani di essere i veri massacratori del popolo siriano.

Qualche cosa di diverso mi racconta Lamya Haji Bashar la giovane yazida, premio Sakharov, ridotta in schiavitù dai jihadisti. «Le donne dell’Isis sono state quasi peggio degli uomini che mi hanno stuprato. Sono stata venduta cinque volte – racconta Lamya – e ogni volta picchiata, violentata e torturata dai miei aguzzini: gli uomini mi stupravano, le donne mi trattavano come un animale che striscia per terra». Il volto di Lamya porta le cicatrici di una granata esplosa mentre tentava la fuga ma i segni dentro la sua anima sono ben più profondi. «Vedo che oggi escono dall’assedio e chiedono di tornare a casa, mi domando se questa sia davvero giustizia: forse dovrebbero affrontare un processo alla Corte penale internazionale».

La guerra non finisce in questo lembo di terra siriana si Al Baghouz affacciata sul governatorato iracheno di Al Anbar – dove si stima ci siano ancora 5-7mila combattenti – per i seguenti motivi che elenchiamo:

1) A Idlib e nel Nord siriano _ 2,5 milioni di abitanti – ci sono ancora decine migliaia di jihadisti affiliati di Al Qaida, con stime variabili da 20mila a 40mila. La loro resa o ricollocazione è affidata all’accordo tra Russia, Turchia e Iran, ma non c’è ancora niente di deciso neppure dopo il vertice trilaterale di Sochi del 14 febbraio. L’aviazione siriana da giorni martella a Khan Shaykhun e Jisr Shughur, rispettivamente a sud e a ovest di Idlib, dove sono asserragliate anche le milizie filo-turche.

2) Continua il conflitto tra curdi e la Turchia. I curdi, considerati da Ankara dei «terroristi», chiedono una forza internazionale di interposizione mentre Erdogan insiste per ampliare la sua «fascia di sicurezza» dopo essersi impossessato del cantone curdo di Afrin: qui nelle scuole si insegna il turco e Ankara ha imposto la sua economia.

Il presidente turco ieri ha ribadito la minaccia di invasione e al contempo ha confermato la sua sfida a Usa e Nato con l’acquisto del sistema di difesa missilistico S-400 e per gli S-500 di prossima generazione. È chiaro che vuole il via libera di Putin, il quale nicchia, mentre tiene sulla corda gli americani.

3) Permane il vero motivo strategico del conflitto che nel 2011, da rivolta popolare contro il regime alauita, si è trasformato in una guerra per procura contro l’influenza dell’Iran, l’alleato storico di Assad, con il coinvolgimento della Turchia delle monarchie del Golfo e delle potenze occidentali che pur di abbattere il regime hanno sostenuto i jihadisti, come del resto ha affermato di recente il colonnello francese François-Régis Legrier nell’intervento sulla Revue de la Défense nationale, con grande disappunto delle Forze Armate.

4) Israele, che gli Stati uniti si ritirino o meno, continuerà i raid in Siria contro i pasdaran iraniani. Azioni militari che coinvolgono inevitabilmente gli Hezbollah, alleati di Teheran in Libano. Gli israeliani sono stati investiti da Washington del ruolo di guardiani della regione mentre anche Putin, che finora ha contato sugli iraniani, deve arrivare a un accordo sia con l’Iran che con Netanyahu che ha incontrato la scorsa settimana a Mosca.

Chi «tradirà» chi? Putin è il vincitore della guerra, insieme all’Iran e al regime di Assad, ma ha anche grandi interessi politici ed economici con Israele, la Turchia e le monarchie del Golfo: deve far fruttare, con la ricostruzione, una vittoria militare di prestigio ma assai costosa.

5) La fine territoriale dell’Isis non è la fine del jihadismo: continueranno azioni di guerriglia e l’insurrezione sunnita, tra Siria e Iraq, non è sepolta perché le rivendicazioni settarie restano sia in Siria che tra la minoranza sunnita dell’Iraq. Come non è certo evaporata sull’Eufrate l’ideologia dell’Isis che si è diffusa con le sue affiliazioni ben oltre i confini del Medio Oriente, dall’Asia all’Africa.

Una questione si lega all’altra, una guerra si lega all’altra. La fine dell’Isis, nel gioco degli specchi mediorientali, riflette il netto contorno di una sconfitta militare ma anche il destino tragico e precario di interi popoli e nazioni.