Labbra gigantesche, «jaggeriane», lascive, schiacciate da una fotocopiatrice. Era il 1992, la copertina di un disco chiamato Dry e una donna PJ Harvey, all’epoca esordiente, che con una sola immagine, ancora prima dell’ascolto, rivoluzionava il panorama femminile del rock, grazie a un concentrato di violenza e inquietudine, di desiderio femminile in gabbia pronto a liberarsi nelle corde di una chitarra. Ventiquattro anni e nove dischi dopo, la cantautrice del Dorset, abituata a mutazioni continue, estetiche e musicali, ritorna, dopo qualche anno di silenzio, con un disco, The Six Hope Demolition Project, realizzato come una vera e propria installazione artistica, denominata Recording Process, che ha avuto luogo a Londra nella Sommerset House, con tanto di pubblico (pagante), tra gennaio e febbraio dello scorso anno.

L’album si presenta fin da subito come un diario di bordo, un taccuino di emozioni apocalittiche e riflessioni anti capitalistiche sulle devastanti conseguenza delle guerre degli ultimi vent’anni visto che PJ, in compagnia del fotografo e filmmaker Seamus Murphy, negli ultimi anni ha viaggiato in Kosovo, Afghanistan e nei sobborghi americani spaventosamente gentrificati, quasi come una reporter di guerra, osservando e registrando realtà e impressioni in brevi poesie che hanno accompagnato un libro fotografico, The Hollow of the Hand del sovracitato Murphy, pubblicato lo scorso anno.

Il disco dunque esce a cinque anni di distanza da Let England Shake, vincitore del Mercury Prize nel 2011 e sorta di concept-album sulla guerra che, grazie l’incanto di melodie rurali e di atmosfere folk, si liberava dalla schiavitù di demoni sensuali e spirituali, cercando nelle radici della sua bellicosa Inghilterra i semi della desolazione contemporanea. The Six Hope Demolition Project dunque, date le premesse, appare come un naturale proseguimento, ma fin dalle prime strofe di The Community of Hope, quella voce quasi fanciullesca che, nel disco precedente, rievocava l’orrore con il distacco quasi incantato di una fiaba lontana, sembra scomparsa per lasciare posto a un’inaspettata retorica politica.

Se musicalmente PJ si riappropria in maniera sublime delle urticanti chitarre che profumano di blues e garage-rock anni ’60, il suo storytelling, un tempo carico di squisita ironia, appare schiacciato dalla complessità tematica. Brani come The Wheel («Bambini non scomparite, mi hanno detto che siete in 28 mila), dedicato ai piccoli kosovari, o Dollar, Dollar, ritratto di un bimbo homeless che chiede l’elemosina, ad esempio, pur sorretti da una solidissima stratificazione musicale, non riescono purtroppo a eludere le maglie della denuncia «ordinaria», riducendo così la consueta urgenza espressiva della Harvey all’impressione di una nuova poetica abilmente, e superficialmente, costruita.