Avremo un Afghanistan nel cuore dell’Europa? Tre vertici a Bruxelles in un giorno (Consiglio europeo – Nato – G7) in cui Joe Biden oggi ci dice se intende – Putin permettendo – finire la guerra o affrontare la Russia in un conflitto di logoramento per procura che dura da un mese esatto.
La narrativa di una Russia che non può vincere o comunque restare impantanata è già pronta. Il presidente americano arriva accompagnato dal parere del Pentagono secondo cui Putin ha perso più del 10% della sua forza militare, si dice che l’offensiva è in stallo, la logistica delle truppe russe in crisi e gli ucraini sarebbero passati in alcune aeree alla controffensiva.

E come informa sul New York Times del 22 marzo l’ex generale americano che pianificò i raid di Desert Storm in Iraq, gli ucraini hanno ancora una forza aerea segreta che combatte contro i jet Sukhoi russi.

Inutile girarci intorno: Biden è il capo del fronte euro-atlantico in una guerra dove gli ucraini sono la fanteria, come lo erano i curdi nella lotta al Califfato. Nonostante gli Usa non vogliano assolutamente una no-fly-zone per evitare una terza guerra mondiale, sono gli americani con gli inglesi che hanno riempito di armi l’Ucraina e gli Stati Uniti rappresentano il maggiore fornitore di aiuti militari e civili a Kiev, quasi 14 miliardi di dollari. Questi sono un recipiente finanziario e militare per continuare il conflitto. Al quale l’Italia di Draghi, nel giorno dell’accoglienza di Zelenski in Parlamento, si è accodata immediatamente.

Eppure toccherebbe a Biden trovare una via di uscita per Putin e fermare il massacro degli ucraini. Ma avrebbe dovuto cercarla prima, quando gli americani per due mesi si sono detti sicuri di un’invasione russa dell’Ucraina e non hanno fatto nulla di concreto.

Andrei Grachev – portavoce di Gorbaciov quando annunciò la dissoluzione dell’Urss – in una recente intervista ha affermato che “bisogna accompagnare i due Paesi impegnati nel conflitto verso un’uscita d’emergenza, tornando alla formula discussa degli accordi di Minsk (2015), alla neutralità e fare dell’Ucraina uno stato federale, per garantire i diritti di una minoranza di lingua russa, che corrisponde a quasi un terzo della popolazione. Questo tipo di soluzioni potrebbero calmare il gioco, offrire a Putin la possibilità di giustificare l’alt all’offensiva.

È interessante che la stessa posizione, con sfumature diverse, sia espressa dal giornale americano “The Atlantic”. Che sottolinea la tentazione illusoria dei leader occidentali. I funzionari occidentali stanno rafforzando la loro retorica e il loro sostegno all’Ucraina per solidarietà morale e geopolitica, ma anche per il successo iniziale dell’Ucraina nel resistere all’attacco russo. Più a lungo l’Ucraina resisterà, più l’Occidente potrebbe convincersi di poter ottenere qualcosa di più grande dello status quo, e cioè che Putin e il suo regime non sopravvivano alla crisi che hanno generato.

È la debolezza stessa della Russia a creare una serie di pericoli. Si stanno facendo strada ipotesi sul collasso della Russia, convincendosi per esempio che l’esercito di Mosca non sia all’altezza, che le sue difficoltà in Ucraina rivelino un sistema pervaso dalla corruzione, che Putin sia una tigre di carta, o che il regime di Mosca cadrà presto.

Ma dobbiamo ricordare che l’autoritarismo cinese è sopravvissuto alle proteste di piazza Tienanmen, la teocrazia iraniana è sopravvissuta per decenni alle sanzioni Usa e, più recentemente, Bashar Assad è sopravvissuto alla guerra civile siriana e ora è stato riaccolto nel consesso arabo con la visita di venerdì scorso negli Emirati.

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Ma forse è questo che fa più paura al fronte euro-atlantico, reduce da disastri epocali in Afganistan, Iraq, Libia: scoprire che metà del mondo sta con Putin o simpatizza per lui. È il fronte “zero sanzioni” a Mosca. Dalla Cina, all’India, al Pakistan, alle monarchie del Golfo, senza contare le esitazioni di Turchia e Israele. Tutti stati che vogliono tenere aperti i canali con Mosca. Come dimostra lo storico vertice dell’altro giorno a Sharm ek Sheikh tra il premier israeliano Bennett, il principe degli Emirati Mohammed bin Zayed e il dittatore egiziano Al Sisi.

C’è il pericolo che la narrativa di impantanare la Russia in Ucraina alimenti pericolose illusioni. È possibile che il regime di Putin sia davvero indebolito. Ma questa debolezza della Russia può creare una serie di pericoli. In primo luogo, l’Occidente potrebbe diventare troppo sicuro di sé nel testare i limiti di Mosca. La prospettiva di una sconfitta in Ucraina, poi, aumenta la possibilità che Putin intensifichi il conflitto.

L’escalation può cominciare da subito. Putin potrebbe decidere che, semplicemente, non può perdere. Questo aumenterebbe la probabilità che usi armi di distruzione di massa per cambiare la realtà sul campo. La natura del suo regime fa sì che a essere in gioco non sia solo il suo potere ma perfino la sua vita. In questa situazione non si dovrebbe dare per scontato si fermerà prima di aver raso al suolo Kiev: ha già dimostrato di essere disposto a farlo, prima a Grozny, in Cecenia, e poi ad Aleppo, quando la potenza aerea russa ha sostenuto Assad.

Il pericolo, quindi, è che il sostegno occidentale all’Ucraina – alimentato dalla barbarie di Putin, dal successo ucraino e dall’ottimismo occidentale – si combini con la crescente debolezza del regime, creando le condizioni per un errore di calcolo nato dalla disperazione. E più la crisi dura e più grande è questo pericolo.

Poi ci siamo noi italiani: con un governo che aumenta verticalmente le spese per la difesa ma non accantona risorse sufficienti – abbiamo otto settimane di riserve, dice il credibile sottosegretario Gabrielli – per acquistare materie prime energetiche. Allora spegneremo la luce e insieme, forse, anche il lume della ragione.