Alla fine il bubbone è scoppiato («E’ bene che gli scandali avvengano»). L’aggressione contro decine e decine di donne a Colonia e in altre città, ma anche in Svizzera, Austria, Svezia e Finlandia, di folti gruppi di uomini, prevalentemente arabi, mette in evidenza le enormi difficoltà della convivenza; ora, dopo l’arrivo in Europa di un milione di profughi in un anno, molto di più che in passato. E proprio per questo mette del pari in evidenza la grande cura con cui questa difficoltà va affrontata.

È un evento, questo di Colonia, che non va né sottodimensionato né sottovalutato; non solo perché a impedire di farlo già provvedono e provvederanno sempre più sia la furia razzista delle organizzazioni di destra che le dissertazioni pseudoculturali sulla civiltà europea della stampa e dei media di regime; e non solo perché è verosimile che, seppure in altre forme, eventi come questo siano destinati a ripetersi; ma soprattutto perché comprendere il meccanismo che lo ha messo in moto e il modo in cui maneggiare questa materia così delicata e incandescente è tutt’altro che semplice: volenti o nolenti, ci terrà impegnati a fondo nei prossimi anni. Alcuni punti possono essere però sottoposti alla nostra riflessione fin da ora.

Innanzitutto si tratta di una manifestazione particolarmente disgustosa di una guerra di uomini contro donne: una guerra in corso, con diversa intensità e diverse manifestazioni, da sempre e su tutto il globo. Proprio per questo ci coinvolge tutti: nessuno può chiamarsene fuori senza chiedersi se non c’è qualche nostro atteggiamento, comportamento o omissione, espliciti o rimossi, che quella guerra contribuisce in qualche modo ad alimentare o a perpetuare.

Per questo va rigettata qualsiasi interpretazione che tenda a riportare quell’evento a uno scontro di culture o di civiltà: musulmani contro cristiani, o arabi rozzi e incolti contro europei civili, o popoli che soggiogano e disprezzano le donne contro quelli che “le hanno” emancipate e le rispettano: non c’è certo più violenza in quello che è successo a Colonia di quanto vanno a fare milioni di turisti del sesso in tanti paesi dove è loro concesso farlo, o di quanto si ritengono in diritto di fare tante truppe di occupazione: e non solo in guerra; si pensi per esempio alla lunga lotta delle ragazze giapponesi vittime per decenni delle violenze perpetrate dai militari delle basi americane in Giappone.

Ma, per restare vicini a noi, vale la pena ricordare che il modello di quanto messo in atto a Colonia la notte di Capodanno è facilmente riconducibile a manifestazioni come l’Octoberfest di Monaco, dove, senza bisogno di profughi e migranti, le molestie contro le donne – solo in alcuni casi apparentemente consenzienti perché in preda ai fumi dell’alcol – sono all’ordine del giorno e le denunce di stupro, solo dopo l’ultima edizione, sono state oltre duecento.

Peggio ancora è il grido di battaglia rigurgitato da alcuni dei maggiori esponenti della cultura italica mainstream: «Difendiamo le nostre donne!», dove quel “nostre” dice tutto. Le “nostre donne” vanno difese perché sono “cosa nostra”. La sorte delle altre donne al più non ci riguarda, quando non le si considera direttamente “a disposizione”. E quel “nostre” può oscillare dalla ristretta cerchia di un nucleo familiare (salvo violarle in vari modi all’interno di quella stessa famiglia) alla cerchia larghissima della “famiglia europea”, o di una sua componente “legittima”: purché ci sia un “fuori”, ci siano delle altre donne nei cui confronti il dovere di tutela non vale, e non deve valere. E’ un sentire diffuso, speculare, ancorché spesso inconsapevole, al possesso delle donne esplicitamente rivendicato dalle manifestazioni più estreme delle politiche islamiste: le “loro” donne vanno tenute sotto chiave e nascoste dietro un velo o un burka: le altre possono essere fatte oggetto delle più feroci forme di violenza.

Queste sono considerazioni di ordine generale, ma non vanno trascurate le specificità. Anche se, come alcuni video hanno evidenziato, tra le donne molestate a Colonia ce ne erano diverse di aspetto mediorientale, il cuore dell’evento è stato una aggressione di giovani uomini, immigrati o profughi, contro donne tedesche: e non, principalmente, per derubarle durante i palpeggiamenti, ma, caso mai, per palpeggiarle mentre le derubavano. Una vera e propria sfida nei confronti della loro emancipazione, del loro abbigliamento, del loro andare in giro di notte e, beninteso, del loro avere una vita sessuale libera che agli aggressori è negata tanto dalla cultura da cui provengono quanto dalla loro condizione di uomini soli, destinati a rimaner tali per molto tempo o per sempre. Qui la prima considerazione da fare è che il rispetto per le donne viene meno quanto minori sono le possibilità di frequentarle liberamente e su un piede di parità, sia che questo dipenda da vincoli culturali o religiosi, sia da una condizione di segregazione, come è di fatto quella di molti migranti.

Poi va riconosciuto che queste aggressioni sembrano programmate e organizzate. Avrà contato anche, e molto, il passaparola; ma la contemporaneità dello stesso evento in tante città, le sue modalità, il fatto che alcuni degli aggressori avessero in tasca un foglio con le parole con cui accompagnare i loro approcci scomposti, il fatto di stracciare il permesso di soggiorno vantandosi di poterne ottenere un altro il giorno dopo, e soprattutto il dato che l’epicentro sia stata una città governata da una donna fatta oggetto di un attentato e di un’aggressione politica per le sue scelte di accoglienza nei confronti dei profughi non dovrebbero lasciare dubbi in proposito.

Non è alle centinaia di migliaia di profughi che hanno affrontato con figli e famiglie un viaggio carico di pericoli, di umiliazioni, di fatica e di stenti che può essere attribuito un comportamento del genere. Anche se verrà accertato che tra gli aggressori ci sono dei profughi arrivati di recente, la cosa non può essere spiegata che con il fatto che si siano aggregati a bande di connazionali già costituite e cresciute nella segregazione.

Di certo l’obiettivo era accrescere la tensione tra comunità islamiche e cittadini europei. Difficilmente le indagini potranno fare chiarezza, ma se vi fosse stato anche qualche apporto istituzionale di infiltrati nelle comunità islamiche o tra i profughi è da questo che Frau Merkel dovrebbe guardarsi ben più che da un eccesso di nuovi arrivi.

Quello che i fatti di Colonia ci insegnano, ci aiutano a capire meglio, è che accogliere significa, sì, il contrario di tutto quanto l’Unione europea sta facendo: corridoi umanitari sicuri, abolizione del permesso di soggiorno e dei vincoli di Dublino III, sistemazione decente e lavoro per tutti (cioè un piano europeo vero, in grado di creare milioni di posti di lavoro sia per profughi e migranti che per i cittadini europei disoccupati), reddito garantito per chi non trova lavoro e, quindi, rovesciamento radicale delle politiche di austerità.

Ma accoglienza significa soprattutto – e qui contano molto gli atteggiamenti soggettivi – creare un ambiente dove profughi e migranti non si sentano e non vengano trattati come un corpo estraneo nei confronti del resto della popolazione; perché è in quei corpi estranei che si costruiscono o si consolidano quelle identità separate che poi si manifestano in forme di contrapposizione sempre più violente e atroci; di cui la violenza contro le donne è la più radicale di tutte. D’altronde il mantenimento o la riconquista di un controllo pieno sulle vite delle donne sono anche la vera posta in gioco delle tante guerre che si combattono ai confini dell’Europa e ora anche al suo interno.

Certo, parlare di accoglienza in questi termini appare lontano mille miglia dallo stato di cose presente. Ma la strada della nostra emancipazione, di uomini e donne, comincia con il mettere in chiaro dove vogliamo arrivare. E se non cominciamo a farlo andando a fondo, senza ipocrisie, nei modi in cui viviamo i rapporti tra uomini e donne, anche tutto il resto rischia di sfuggirci di mano.