Un errore che si ripete spesso nell’informazione contemporanea, secondo gli autori dell’ultimo numero del 2014 di Limes («La Russia in guerra», 14 euro), sarebbe quello di descrivere alcuni paesi secondo le nostre aspettative, benché si tratti di culture che non conosciamo a sufficienza. In alcuni casi si tratta di sottovalutare alcuni dati, a causa di un’errata concezione dei processi storici, letti a senso unico. Nel caso della Russia, come si evince dall’informazione dei media mainstream in occasione della recente crisi ucraina, capita di leggere interpretazioni che proiettano su quel paese le nostre supposizioni, senza renderci conto di sottovalutare elementi fondamentali della cultura russa e della sua società, pulsioni comprese, ricondotte sempre ad una lettura «occidentale».

Il punto di partenza del numero di Limes dedicato alla Russia è proprio questo: siamo convinti che la Russia rappresenti la parte sconfitta nella guerra fredda e, sulla base di questa supposizione, facciamo discendere analisi e interpretazioni. Il difetto di questo ragionamento, secondo gli autori della rivista geopolitica, è che i russi non si sentono sconfitti, anzi. Sentono di essere stati loro stessi ad aver provocato la caduta dell’Unione Sovietica.

In un libro che descrive un viaggio in treno sulla Siberiana di un paio di anni fa, Luciana Castellina (Siberiana, Nottetempo, 13,50) osserva come tra tutti i vecchi leader sovietici, Gorbi (Gorbacev), sia uno dei «più impopolari del paese». La sua colpa risiederebbe nell’aver sfasciato quel paese, senza essere stato capace di crearne uno nuovo.

Oggi il compito di ricostruire uno Stato potente, capace di tornare in modo determinato sullo scacchiere mondiale, tocca ai russi. Una popolazione che appoggia a stragrande maggioranza il proprio presidente e che si percepisce «in guerra», impegnata in un conflitto contro forze ostili che limitano la crescita del paese. Si tratta di un sentimento che per noi occidentali è difficilmente comprensibile: come potremmo sentirci in guerra con la Russia? Conosciamo le crisi, siamo informati su cosa è successo e sta succedendo in Ucraina, sappiamo come la reazione del mondo occidentale a quanto accaduto a Kiev siano state le sanzioni economiche contro Mosca, ma da lì a immaginarsi in trincea ce ne passa. Invece per la Russia, per il popolo russo, siamo in guerra: perché dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica gli Usa non hanno mantenuto i patti, impedendo a Mosca di poter tornare a contare nel mondo, non riconoscendo alla sua popolazione il proprio contributo alla fine della guerra fredda. Anzi, gli Usa, via Nato, hanno inglobato ex repubbliche su ex repubbliche, fino ad arrivare al supremo smacco, all’incredibile umiliazione: togliere Kiev, la città considerata il cuore della cultura russa, dall’orbita del Cremlino.

La «ri-presa» della Crimea era il minimo che potesse accadere: in quel caso, ha prevalso il bisogno di difendersi. Del resto gli autori di Limes – nell’introduzione al volume – specificano che «la recente storiografia americana, fondata sull’analisi di documenti appena declassificati, stabilisce che Mosca ha ragione di affermare che l’Occidente ha infranto una promessa. Alla fine, gli Stati uniti hanno rovesciato il sistema che avevano promesso di far nascere: riunificazione tedesca, ritiro sovietico, stallo atlantico».

Il primo punto rilevante per un’analisi completa consiste nel sapere chi si ha di fronte. Come sottolinea Paul Bushkovitch nel suo Breve storia della Russia (Einaudi, 30 euro), la Russia non è stata compresa granché dall’informazione di massa, anche perché si sono sottovalutati, almeno fino alla rivoluzione bolscevica, tratti culturali poco noti in Occidente: da noi si conosce meglio il buddismo, afferma lo storico, rispetto al cristianesimo ortodosso «che definirà il carattere russo fino al diciottesimo secolo e anche dopo». In relazione all’Ucraina, per i russi significa entrare in un campo storico minato, perché «la storia russa inizia con quel complesso statale definito «Rus’ kieviana» che può considerarsi antenato della Russia moderna. Veniva chiamata «Rus’» il territorio che aveva come capitale Kiev e che oggi comprende la Bielorussia, la metà settentrionale dell’Ucraina e le regioni centrali e nord occidentali della Russia europea». E Putin, tutto questo, lo ha visto sfuggire dalle proprie mani. Non senza la responsabilità americana.

Come viene sottolineato nell’introduzione del volume di Limes, «alcune agenzie di Washington hanno investito per anni miliardi di dollari nel sostegno al movimento popolare che ha minato il regime di Yanukovich, riservando qualche spicciolo alle milizie armate che gli hanno dato la spallata finale, quando gli europei sembravano averlo salvato».

Non si tratta di qualcosa di strategico, quanto piuttosto il desiderio, «di Obama di umiliare Putin, che negli ultimi tempi sembrava essersi montato la testa, intervenendo oltre il raggio di azione regionale assegnatogli nelle carte mentali dei decisori di Washington». Per Putin una volta scappato Yanukovich, la situazione è degenerata: lo zar dell’attuale Russia, gode del consenso dei suoi cittadini, ma storicamente sarà – per sempre – l’uomo che ha perso il cuore della civiltà russa. E che ha riportato la Russia nell’orbita cinese, paese considerato dalla popolazione come un futuro nemico. E Putin, si chiedono nel capitolo di Limes «Il gemello diverso: appunti per un ritratto di Vladimir Putin», Orietta Moscatelli e Mauro De Bonis, come ha agito rispetto all’atteggiamento americano? L’ex Kgb (per quanto «un ex Kgb, non sarà mai un ex», come ebbe a dire lo stesso presidente russo) già nel 2007 aveva criticato la concezione di un mondo unipolare americano. Nel discorso a Monaco dell’11 febbraio 2007, Putin «si scaglia contro la mancata ratifica dei paesi Nato del Trattato sulla riduzione delle forze armate convenzionali in Europa e denuncia il fatto che l’Alleanza abbia invece dislocato le sue forze ai confini con la federazione russa». Contro chi è questa espansione, si chiedeva Putin? «E cosa è successo alle assicurazioni ai nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia?» Nel 2009, ottiene che Bielorussia e Kazakistan entrino in un’unione doganale, prima pietra del blocco che diventerà l’Unione Economica Eurasiatica (nata il primo gennaio di quest’anno).

Tutto questo prima della crisi ucraina, che, arrivata al suo apice, vede Putin proporre all’ex presidente Yanukovich 15 miliardi di dollari, un buono sconto sul prezzo del gas e il consiglio di farsi rispettare in casa propria. «Potrebbe essere la fine della storia – scrivono gli autori di Limes – ma gli Usa hanno deciso di spingere per il cambio di regime e scendono in campo con la loro rete di ong e consulenti. Malgrado un accordo di compromesso raggiunto tra i ministri degli esteri di Polonia, Francia e Germania, che tentano una mediazione in extremis, Yanukovich è costretto a fuggire».

La crisi ucraina, così, ribalta le sorti della leadership putiniana: «è un gioco di specchi, dove si riflette l’immagine sdoppiata di un capo dello Stato che agli occhi dei suoi concittadini continua a essere il vozd, il capo, dopo una stagione di proteste che mette in dubbio la tenuta del suo terzo mandato». È il momento più duro per Putin, perché i russi conoscono l’importanza dell’Ucraina e riecheggiano le parole di Zbigniew Brzezinski nel libro The Great Chessboard, American Primacy And Its Geostrategic Imperatives (Basic Book, 10 euro, formato ebook): «senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero euroasiatico, mentre controllandola la Russia ritrova di nuovo i mezzi per diventare un potente Stato imperiale che attraversa l’Europa e l’Asia».

Non a caso, la destabilizzazione dell’Ucraina è sempre stata valutata dai russi come una minaccia ai propri interessi prioritari. Putin, anche se in sella, rischia qualcosa dai gruppi che meno lo amano: oligarchi che potrebbero approfittare di una situazione economica negativa e nazionalisti (compresi i giovani disillusi e gratuitamente violenti raccontati nei libri di Zachar Prilepin). Non a caso, subito dopo la cacciata di Yanukovich da Kiev, si è parlato di una possibile rivoluzione colorata a Mosca. Per ora Putin tiene, raccoglie consensi, nonostante l’arrivo di nuove sanzioni e il continuo calo del prezzo del petrolio, un altro elemento che fa considerare ai russi di trovarsi in una vera e propria situazione di guerra.

Al riguardo, scrive John C. Hulsman su Limes (nel capitolo «I sauditi puntano sul barile a saldo per tenersi stretti gli Usa»), «ecco quello che sappiamo con certezza. Il segretario di Stato John Kerry ha incontrato Re Abdullah lo scorso 11 settembre. L’accordo stretto in quell’occasione impegna i rispettivi paesi a pompare petrolio per esercitare pressione sul nemico mortale di Ryad, l’Iran. In aggiunta sia l’Arabia Saudita sia l’America hanno dei conti da regolare con la Russia: gli americani per l’Ucraina, i sauditi per il sostegno russo ad al Assad in Siria». Putin avrebbe dato il proprio sostegno alla causa sciita, all’interno della frattura nel mondo musulmano, mettendosi così in rotta di collisione con il regime sunnita di Ryad.

Una guerra, dunque, globale.