Il «manifesto» è un gioiello dell’editoria italiana. E non lo è solo – già basterebbe – per la tenace rappresentazione dei bisogni e dei diritti degli ultimi o dei penultimi; bensì pure e soprattutto per lo stile editoriale del giornale. Un marchio di qualità: povero ma bello davvero. Non è un caso che la campagna per riprendersi la testata, da parte della cooperativa in prossimità dell’asta, stia andando positivamente.

Persino l’azzardo della giornata di vendita a venti euro, cifra così rilevante nella crisi economica terribile, ha dato buon esito.

La sottoscrizione deve continuare, perché la conquista della definitiva indipendenza, dopo il periodo dell’amministrazione controllata, è un obiettivo cruciale. Per «il manifesto» e per tante testate autonome. Solo basandosi sulle proprie forze è possibile progettare il futuro.

In un certo senso, torna di attualità la «controinformazione»: rispetto a un universo complessivamente omologato da un pensiero unico.

Certo, non mancano le nobili eccezioni.

Tuttavia, il manifesto è l’eccezione tra le eccezioni, avendo nel suo Dna la storia e il presente del movimento operaio, che oggi riappare sotto specie diverse (dal precariato diffuso alle nuove schiavitù, oltre che nelle modalità classiche), tenute insieme dall’eterno scontro tra le classi.

Qualche fine dicitore arriccerà il naso….le classi sono desuete, ripeterà con asfissiante ritornello. E perché mai, visto che le contraddizioni si spostano nell’era digitale, non meno forti di quanto siano state in passato. Semmai, di maggiore ampiezza e virulenza.

Ciò che sta accadendo in questi giorni sul Jobs Act dovrebbe ammonire i dotti, i medici e i sapienti, sempre al capezzale del malato. Quando la malattia sono loro. Non è lecito rinunciare a raccontare il «realismo» della realtà e se non c’è chi lo fa, i guai diventano seri.

La scienza dei fatti si allontana, le omissioni colorano il racconto, al massimo verosimile, quasi mai vero.
Non si immagini, poi, che qualche potente finanziere possa essere interessato alla libera informazione. Non vanno, ormai, di moda neppure i «captive media», i media integrati nei grandi gruppi di comunicazione. I giornali interessano sempre di meno, e non solo per il successo della rete. Magari. L’attuale stagione del capitalismo speculativo e finanziario vive con malessere l’intelligenza collettiva. Poveri e ignoranti.

P.S. dov’è sparito il Fondo per l’editoria? Governo, batti un colpo.

Partecipa su miriprendoilmanifesto.it