Certe storie fanno un giro enorme per poi tornare sempre nello stesso posto. Harlem, terzo decennio del secolo scorso, tra le menti più brillanti del Reinassance dell’epoca, si inizia prepotentemente a mettere in mostra la giovane Zora Neale Hurston, intellettuale, antropologa e scrittrice afromericana. La quale nel 1931 tentò senza successo di far pubblicare il suo manoscritto Barracoon, che vedrà la luce, in Italia grazie alla casa editrice 66th and 2nd, solo nel 2018 ovvero ben ottantasette anni dopo. Il testo della Hurston era incentrato sulla vita di Cudjo Lewis, uno degli ultimi sopravvissuti alla tratta degli schiavi dall’Africa al continente nord americano, il quale giunse negli States a bordo di una nave chiamata Clotilda, a cui venne accreditata la malfamata nomea di essere stata l’ultima barca adibita al riprovevole mercato di esseri umani.
Harlem, ottobre 2020, la cantante african american Shemekia Copeland, nata e cresciuta nel quartiere, pubblica il suo nono disco. Un lavoro di indiscutibile qualità, che si apre con un brano diretto e incisivo, in cui si palesano da subito le intenzioni della vocalist, sia dal punto di vista musicale che delle liriche. Si tratta di un blues energico ed evocativo dove, mentre le chitarre di Will Kimbrough e dell’illustre ospite Jason Isbell danno pathos al tutto, Copeland prende letteralmente il volo con la sua interpretazione nel brano che si intitola, neanche a dirlo, Clotilda’s on Fire: «L’anno scorso i resti della Clotilda sono stati trovati in una baia nei pressi della città di Mobile, in Alabama. Era stata l’ultima nave impiegata per trasportare schiavi, nonostante da tempo questa fosse una aberrante pratica fuorilegge. I proprietari, per evitare di essere scoperti e incorrere nelle punizioni previste, la bruciarono una volta giunti a destinazione. Oggi quella nave non esiste più, ma il mio paese vive ancora con i fantasmi di quell’imbarcazione. Ed è quello che canto nella mia canzone».

PROFONDI LEGAMI
La blueswoman di Harlem ha un legame profondo con il proprio luogo di nascita, che include ovviamente un rimando immediato alla presenza carismatica del genitore, il leggendario cantante e chitarrista Johnny Copeland: «Sai, dalle nostre parti c’erano gang, droghe e qualsiasi tipo di problema. Ma era comunque il mio quartiere. E mio padre era molto rispettato, di conseguenza non ho mai avuto noie particolari. Sia chiaro, anche la mamma ha fatto un gran lavoro per allontanarmi dai problemi. A mio padre devo tutto anche musicalmente: ricordo molto bene la prima volta che mi ha invitato a cantare, fu al Cotton Club, avevo solo otto anni! Ero così timida che non volevo neanche guardare il pubblico… e pensare che oggi il palco è il mio posto preferito, quello dove vorrei sempre essere. E poi ho aperto i suoi concerti quando ero una ragazza, erano anni belli e difficili al tempo stesso, in quanto era molto malato e aveva bisogno di un trapianto di cuore. Mi ripeteva sempre che gli ero vicino e lo stavo aiutando. Ma in realtà era lui che supportava me».
Copeland con questa nuova uscita, riesce nel difficile compito di superare il precedente America’s Child del 2018, che le aveva garantito un rilancio dopo alcune pubblicazioni non completamente soddisfacenti. Uncivil War, per la Alligator Records, manifesta la maturazione della cantante. L’equilibrio drammaturgico tra testi e musica è pienamente raggiunto, garantendo quindi uno standard qualitativo indiscutibile: «Questa nuovo album è una continuazione dei temi affrontati in America’s Child, ed è a tutti gli effetti, il mio punto di vista su come si vive negli States oggi. In tal senso sono risultati determinanti per ottenere la giusta soddisfazione due artisti per me fondamentali, John Hahn e Will Kimbrough. John è la mia arma segreta. Ha prodotto un disco per mio padre e lo conosco da quando ero bambina! Ha scritto più della metà delle mie canzoni, è davvero un autore brillante. Will invece è un chitarrista e un cantautore incredibile. Suona come un mostro e nonostante la giovane età mostra una invidiabile maturità, è meraviglioso. Al contempo riesce a essere premuroso con me, portandomi a dare il massimo». La cantante dice il vero, in quanto nella totalità di Uncivil War è palese come Kimbrough sia il suo alter ego perfetto. L’empatia tra i due è palpabile, sia quando eseguono Love Song, una vecchia ballad dell’illustre genitore pubblicata nel 1992 nell’eccellente disco Flyin’ High, sia quando propongono il nuovo materiale autografo. Proprio la title-track è uno dei momenti più emozionanti del disco, anche grazie a ospiti come The Orphan Brigade e Sam Bush, mandolinista di spicco della scena bluegrass: «Viviamo in un posto dove metà del paese sostiene il presidente, l’altra metà lo odia. Il problema è che noi come popolazione non possiamo accettare di non accogliere. È diventata una situazione in cui siamo incivili l’uno verso l’altro. In passato si poteva anche non condividere lo stesso punto di vista politico, ma si poteva comunque essere amici, oggi è diventato difficoltoso».

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Kimbrough è chitarrista capace anche di spingere al momento giusto, come si evince dai passaggi più muscolari della session, Apple Pie and a 45 e Money Makes Me Ugly in cui è presente la star Christone «Kingfish» Ingram: siamo ben lungi dal blues classico, il che garantisce contemporaneità a tutto il lavoro. A una analisi più approfondita, il chitarrista – caso vuole originario proprio di Mobile – mostra a volte una discreta vicinanza al tocco di Luther Dickinson, come si apprezza tra l’altro nell’intro di Under My Thumb che richiama il classico Goin’ Down South. E proprio la canzone dei Rolling Stones, è l’ennesima stoccata di fioretto di Copeland: «Adoro gli Stones! E questa canzone, registrata oramai decenni fa, racconta di un uomo che tiene una donna sotto controllo. Ho pensato che fosse ora di invertire quel punto di vista».
Tra le tante doti artistiche ereditate dal padre, senza dubbio una delle più utili è la capacità di essere al contempo leggera nella forma e fortemente consapevole nei contenuti. Con il vecchio classico dei britannici di cui ha radicalmente rovesciato il contenuto, la blueswoman evidenzia uno dei numerosi episodi in cui dimostra una vicinanza effettiva sia al movimento delle donne che a quello degli afroamericani, andando a recuperare una gemma lucente come Give God the Blues, firmata dal misconosciuto country rocker Shawn Mullins nel 2012, donandole ulteriore bellezza. La vocalist vive appieno la quotidianità della comunità afroamericana ed ha le idee ben chiare su quanto le accade attorno. Non le è sfuggita la recente vicenda riguardante la rimozione definitiva della bandiera dello stato del Mississippi, ultimo scampolo estetico dell’era confederata, resa ufficiale lo scorso 3 novembre grazie a un referendum nello stato della magnolia e del cotone che ne chiedeva l’abrogazione: «È stato davvero molto importante. La vecchia bandiera era per tante persone un simbolo di odio e tristezza». La resa migliore in musica delle sue intenzioni, si palesa con la riuscita Walk Until I Ride: «Avevo intenzione di registrare un inno sui diritti civili. John Hahn ha scritto questo sulla discriminazione nell’attualità che viviamo e ha fatto un bel lavoro. Non potremo mai rinunciare alla lotta finché non saremo liberi».

 

REGINA DEL PALCOSCENICO
Charon Shemekia Copeland, classe 1979, è figlia di Johnny Copeland, icona del Texas Blues. Dotata di una voce potente e profonda, è considerata un’autentica mattatrice del palcoscenicoè una tra le migliori tre bluewomen del mondo del momento. Vanta, includendo l’ultimo «Uncivil War», nove uscite discografiche pubblicate in buona parte per la storica etichetta Alligator Records, ad eccezione di due album usciti per la Telarc. I dischi migliori sono il sorprendente esordio «Turn the Heat up» del 1998, «Wicked» del 2000, «33 1/3» del 2012 e «America’s Child» del 2018. È stata nominata tre volte ai Grammy e ha vinto numerosi Award di settore. Nel 2006 inizia a condurre un programma sul blues dalle frequenze dell’emittente SiriusXM, dal 2019, sempre per la stessa radio, è in onda con un nuovo show all’interno del format «B.B. King’s Bluesville».