Ogni comunità letteraria ha le sue icone, i suoi missionari. È un destino che in Italia conosciamo bene, a lungo impegnati con la questione dello scrittore attivista, alla bisogna santo o peccatore. In Ucraina tale sorte è ormai appannaggio di Serhij Žadan, scrittore e musicista underground. È del 2016 la traduzione italiana del suo romanzo più noto, La Strada del Donbass, seguito due anni dopo dai racconti di Mesopotamia. A chiudere il trittico è Il convitto (Voland, pp. 320, euro 17, traduzione di Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyc), ultimo atto di una trilogia della frontiera, per dirla alla Cormac McCarthy, a cui l’autore è stato più volte accostato. Nessun cowboy però nel Donbass. Cuore della storia è Paša, uomo senza qualità e insegnante di lingua trascinato dai venti di guerra.

CONVOGLI MILITARI vanno e vengono appena fuori dal suo appartamento, il tempo è scandito da pesanti esplosioni per le strade. Dopo una sfuriata con il padre, Paša decide di andare a recuperare il nipote, tredicenne rifugiato in un convitto neanche molto lontano da casa. Lo fa senza una particolare convinzione; esce di casa e va alla guerra. Deve solo rimanere fedele al suo distacco dalle forze in campo, non parteggiare.

Il convitto è un quasi survival in terra ignota. Žadan decide infatti di nascondere il nome della città, così come evita di nominare l’esercito nazionale e i separatisti. Il suo è un lavoro su quelle vecchie mappe di cui la Russia fatica ad accettare il cambiamento, sulle quali oggi Paša è costretto a muoversi senza sapere dove si trova. E quindi il ritmo è molto alto; le distanze in tempo di pace sarebbero minime, ma la guerra deforma itinerari e tempi di percorrenza. Paša parte da un punto e sterza verso un altro, capitombola fino all’inizio della sua avventura e infine decide per un’altra strada ancora.

MOVIMENTO SIMILE è anche quello della prosa, che rifluisce e invade il racconto, oscillazione che Žadan controlla agilmente, tra vagoni bruciati e famiglie tappate in casa. Perché l’umanità nel Donbass o scappa, salvo girare i tacchi appena avvertito il minimo pericolo, oppure è nascosta in qualche villetta sventrata dai colpi di mortaio. I personaggi che gravitano attorno a Paša non sono tesorieri di verità universali; cercano invece di fare qualche passo in avanti, si squadrano l’uno con l’altro, non hanno idea di dove proseguire. Così è per il gruppetto che avanza tra i fischi delle granate fino al primo nascondiglio utile, persone che a malapena riescono a mantenersi in piedi; è così anche per i soldati, coscienze sconvolte che sembrano girare a vuoto.

IN QUESTO suo ultimo romanzo il cantore della suburbia postsovietica trascina la recente storia ucraina in un cupio dissolvi che non riserva «pietà per nessuno», dove «non c’è più rimedio, non c’è salvezza». Mentre nel Donbass le vittime di guerra sono abbandonate nei fossati, l’odissea antiepica di Paša permette a Žadan di ricordarne la storia tramite uno spazio letterario disperato e assolutamente vivo.