Braccato, fermato, rinchiuso in un carcere tedesco in attesa di estradizione Carles Puigdemont, l’ex presidente della Generalitat catalana, è l’ultima vittima eccellente di una guerra non dichiarata, combattuta a colpi di atti giudiziari, incarcerazioni, rinvii a giudizio, mandati di cattura europei pensati a suo tempo per combattere il terrorismo.

L’«ottobre catalano» non è stata una rivoluzione, un’insurrezione armata, una secessione, un colpo di stato. Non si sono viste violenze, né azioni di aggressiva ostilità nei confronti delle autorità spagnole in Catalogna. Il referendum e la successiva, ambigua, dichiarazione di indipendenza sono stati atti politici, discutibili quanto si vuole, ma appoggiati da un vasto consenso popolare e dagli effetti essenzialmente simbolici.

La reazione di Madrid, invece, violenta lo è stata a tutti gli effetti con l’occupazione amministrativa della regione catalana, l’incriminazione e la reclusione dei principali esponenti del fronte indipendentista. Infine con la caccia ai politici catalani riparati all’estero. Una reazione, quella di Madrid (senza per questo voler fare paragoni tra due realtà politiche assolutamente distanti) non tanto dissimile da quella di Erdogan in seguito al fallito colpo di stato del luglio 2016 con la persecuzione giudiziaria dei presunti seguaci di Fetullah Gulen  ritenuto l’ispiratore del golpe (in quel caso effettivamente avvenuto, pur con tutte le sue ambiguità).

Di fatto in Spagna tornano ad esserci dei detenuti politici, nel senso proprio del termine: persone private della libertà in seguito ad azioni che non hanno mai travalicato i confini di un agire politico di natura assolutamente pubblica e pacifica. Il ricorso alla via giudiziaria per derubricare una questione politica a questione criminale è una scelta sempre pericolosa tale da condurre a fratture di profondità imprevedibile e conseguenze di lunga durata. Inutile nascondersi dietro l’indipendenza della magistratura (sulla quale, nella Spagna del compromesso postfranchista, è lecito sollevare più di un dubbio), o dietro l’«oggettività» e gli automatismi delle procedure: la persecuzione degli indipendentisti catalani, il rifiuto di ogni dialogo, la cancellazione di un’ampia volontà popolare, costituiscono una scelta politica fondata sull’intimidazione e la violenza che ripropone in maniera ancor più drammatica di prima il tema dell’autonomia catalana. Del resto quando un processo politico viene rovesciato in un processo giudiziario il mancato «riconoscimento» dell’avversario e del suo punto di vista innesca regolarmente una spirale di repressione e inimicizia senza mediazioni.

L’Europa ha fatto ben poco per ammorbidire il conflitto tra Barcellona e Madrid. Nessun serio invito a una conciliazione che tenesse conto delle ragioni degli uni e degli altri. Il feticcio dell’unità nazionale e il terrore delle rivendicazioni di indipendenza hanno suggerito un appoggio incondizionato alla linea dura del governo Rajoi evitando qualsiasi esame dello stato di diritto in Spagna. Ora, nel silenzio più assoluto dell’opinione politica europea, la parola passa ai giudici tedeschi impegnati in un confronto tra la legislazione della Bundesrepublik e quella spagnola, onde stabilire se e per che cosa Puigdemont possa essere estradato. Si tratterà di una decisione politica mascherata da dispositivo tecnico. Perché ormai per l’opinione pubblica spagnola ed europea è il trattamento riservato agli indipendentisti catalani ben più che il contenuto delle loro aspirazioni (la Catalogna indipendente, appunto) a costituire il problema più drammatico e urgente.

Insomma, si può essere del tutto contrari all’indipendenza catalana, e considerare nondimeno aberrante la maniera in cui il governo di Madrid e la magistratura che ne ha preso le parti, stanno affrontando una profonda crisi politica.