Negli Usa ormai non scherzano più. Sono il paese più contagiato e subito stanno militarizzando la Silicon Valley, per usare ogni risorsa tecnologica contro il virus. A cominciare dai data base di Google, Facebook e Amazon fondamentali per localizzare il contagio, come conferma sia il New York Times che il Washington Post, che documentano l’impennata dei contatti e l’accumulo di preziosissime profilazioni che potrebbero aiutare a calcolare i grafi dei collegamenti nelle aree infettate.

Sono i social l’artiglieria pesante in questa guerra e non le app, accessori del tutto marginali nella strategia del data mining.

Contrariamente a quanto invece pensa la ministra dell’Innovazione Pisano che questa mattina ha insediato un comitato elefantiaco, siamo oltre a 60 componenti, divisi in arti e mestieri del digitale, che dovrebbe selezionare i più di 300 progetti giunti in risposta alla call lanciata il 23 marzo per sollecitare progetti e soluzioni di app per sostenere l’azione di contrasto al virus.

Un comitato che avrebbe lavorato telepaticamente, se è vero che già è nota la soluzione che sarà adottata, denominata S.O.S Italia, per georeferenziare i contagiati, sulla base ovviamente della pura autodenuncia.

Ora sarebbe interessante immaginare in questo momento, in Italia, quanti siano coloro disposti a collaborare attivamente con le autorità denunciandosi come contagiato e mettendosi sotto tutela permanente del governo.

Le app funzionano nelle aree, come i paesi asiatici, dove la cultura gerarchica vanta radicamenti profondi, come Corea del Sud o Singapore, mentre in altri scacchieri valgono solo se debitamente incentivate o promosse socialmente.

Senza dati autonomi un’app è un trenino elettrico senza corrente. I dati reali, quelli che possono davvero disegnare i flussi di contatto e mobilità dei cittadini, come dimostrano negli Usa, sono solo quelli dei social: dati inconsapevoli e intimi che possono documentare movimenti e sentiment delle comunità, come la perversa esperienza di Cambridge Analytica dimostra.

La Ministra Pisano proprio ieri in un’intervista davvero curiosa al sito del Corriere della sera afferma che non ha alcuna intenzione di rivolgersi a Google e Facebook, le basta, dice, parlare con l’università di Pavia, a sua volta strettamente supportata proprio da Facebook.

Ma perché? Perché non si vuole attivare proprio quanto prevede il GDPR, il regolamento europeo sulla privacy, che espressamente prevede che i dati dei gruppi privati possano essere recuperati proprio in presenza di una minaccia di epidemia?

Perché le autorità sanitarie o la protezione civile non possono fare quello che Facebook e Google fanno da 10 anni e più, come ha documentato Shoshana Zuboff nel suo saggio su Il capitalismo della sorveglianza?

Come potremo realmente ridurre il delta che separa il contagio reale da quello ufficiale che ancora sta sconvolgendo il sistema sanitario in Lombardia senza poter avere quella risorsa fondamentale che sono i data set dei service provider, da incrociare con i dati della telefonia mobile, cosa che ogni giorno viene fatta a pagamento dagli utenti di quei data set?

Come potremo fronteggiare la vandea che già si sta scatenando nei quartieri di Napoli e Palermo, dove gran parte della gente non ha case adeguate per la quarantena, se non attaccando subito i motori di contagio dopo averli identificati con il data mining?

Queste domande sono alla base di una nuova idea di pubblico, in cui welfare e autonomia dei dati si incontreranno nella società dei beni comuni che uscirà da questa terribile lezione immunitaria.