Si cercano i diavoli e gli angeli muoiono per strada. E anche se non sono angeli, e nemmeno gigli, come cantava De Andrè, son pur sempre figli, vittime di questo mondo.
Così accade che in un vicolo di Napoli, in una delle tante periferie più degradate e brulicanti, restano per terra i bossoli esplosi da una 7.65, le chiazze di sangue annerito, i segni di gessetto della polizia Scientifica.

Lì, su quei selci di pietra antica, è morto ammazzato Emanuele. Non importa sapere il suo cognome, è uno dei tanti ragazzi di camorra. Forcella, il rione Sanità o i Quartieri Spagnoli sono un’Italia molto distante da quella delle «gang» di via Padova a Milano, dove qualcuno è uscito per le strade del quartiere a chiedere più sicurezza. E ora è arrivato l’Esercito. A Napoli non ci sono parate, non si cercano parole.
NapoliI non ne vuole più da nessuno. I napoletani vorrebbero solo che chi adesso parla abbandoni il suo dorato pulpito e scenda nei «bassi» a inorridire insieme a loro, a guardare in faccia l’esplosione di quel domestico dolore.

Michele Santoro lo ha fatto, questa volta come regista. Il suo Robinù, film-documentario sui baby boss della camorra, racconta le vite di quei ragazzi come Emanuele e accende una lampara sulla «paranza dei bambini», che detta così sembra quasi una delicata formula letteraria, quelle che inventano i professionisti dell’etica quando vogliono mettere un po’ di cipria sulle tragedie.
Il film, scritto insieme a Maddalena Oliva e Micaela Farrocco, è stato presentato alla 73a Mostra del Cinema di Venezia e sarà nelle sale italiane il 6 e il 7 dicembre, in due giorni evento. È un racconto crudo, nuovo nel linguaggio a cui le produzioni italiane ci hanno finora abituati.

Sei mesi di lavoro nel ventre molle della città per raccontare quella faida che vede squadre di bambini-soldato combattersi a colpi di fuoco e piombo per il controllo del territorio e del mercato della droga, in una guerra che nell’abaco della mattanza è arrivata già a sessanta morti.
«Ci siamo trovati di fronte una lezione pasoliniana», dice Santoro, «una realtà in cui tra quartiere e carcere c’è una continuità quasi urbanistica». Del resto era proprio Pasolini a scrivere che «nei rifiuti del mondo nasce un nuovo mondo, nascono leggi nuove dove non c’è più legge; nasce un nuovo onore dove onore è il disonore. Dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica». Perché la condizione urbana del capoluogo campano riflette la sua epopea criminale: nel senso che quella sorta di periferia multipla che è Napoli ha partorito una geografia di clan camorristici territoriali, ciascuno blindato nel proprio dominio, tutti in lotta per conquistare un altro quartiere (e difendere il proprio) e la relativa porzione di mercato illecito.

Oggi, a differenza del passato, nelle file di questo esercito criminale ci sono anche loro, i ragazzini armati fino ai denti, ora killer ora corpi spezzati sull’asfalto, oggi assassini domani assassinati in una guerra che nessuno vuole vedere. Ma non è solo una guerra tra clan rivali. Robinù ci consegna anche il trionfo dell’impotenza dello Stato e della cosiddetta società civile che ha scelto di intonare il de profundis della legalità assistendo inerme a questa disfatta.

Ma questa carneficina degli scugnizzi di quartiere ha ragioni molto più profonde che graffiano come carta vetrata sulla coscienza di un’intera nazione. E la domanda resta: noi cosa abbiamo fatto o cosa stiamo facendo per impedire che un destino criminale risucchiasse le vite dei tanti adolescenti educati al kalashnikov e alle skorpion?
Quali alternative stiamo mettendo in campo per impedire che questi ragazzini vivano come prede a disposizione dei mercati criminali senza che la loro vita possa chiudersi nel breve spazio di una sequenza di fuoco? Michele Santoro con Robinù ci ha dato solo uno specchio nel quale, prima o poi, bisognerà guardare.