Girare negli anni settanta (1972), un film come Avoir 20 ans dans les Aurès (Avere vent’anni nell’Aurès), voleva dire avere molto ma molto coraggio. La Francia post coloniale aveva già vietato La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, rimasto invisibile fino al 1971 – e ancor più «scomode» erano state le riflessioni critiche di Fanon sulla guerra di Algeria – perché mostrava la ferocia delle truppe francesi, le cui azioni vennero studiate con cura dalla Cia in preparazione dei successivi golpe nell’America latina, e soprattutto la complicità tra esercito e Oas, l’organizzazione clandestina nata al grido: «L’Algeria ai francesi!».

 

 

 

Quella guerra, divampata anche dentro casa, era un tabù che non si doveva toccare, nemmeno nominare, le sale che proiettavano questi film venivano date alle fiamme, gli intellettuali che l’avevano condannata messi al rogo, e c’è voluto, non troppo tempo fa, il «lasciapassare» di uno dei potenti generali francesi protagonisti dei massacri a far uscire quei fatti dal buio. Con attenzione però perché dei cadaveri degli algerini che vivevano a Parigi buttati nella Senna si fa ancora fatica a parlare.
Cosa racconta il film di Vautier, restaurato solo qualche anno fa, nel 2012, quando venne mostrato anche al Lido di Venezia tra i Classici della Mostra?Di un gruppo di soldati francesi, anzi bretoni, come era bretone il regista, che nell’Aurés, regione nell’est dell’Algeria, si scontra con gli algerini che combattono per l’indipendenza, e fa prigioniero un giovane algerino. Tra i francesi c’è un soldato che viene ferito, e comincia a ricordarsi quanto è accaduto negli ultimi mesi prima di partire per la guerra. La sua opposizione – nella vita è un insegnante – e quella dei suoi amici al conflitto che li ha fatti rinchiudere in prigione. E poi i metodi con cui l’abile e sadico comandante che li ha addestrati è riuscito a trasformare quei ragazzi antimilitaristi in feroci Rambo cacciatori di algerini pronti a tutto, col piacere di uccidere …

 

 

 

Vautier punta su un’immagine molto realistica, che si basa sui racconti raccolti – circa cinquecento intervistati – utilizzando anche la propria esperienza in guerra. E a questo unisce l’ improvvisazione degli attori, e privilegia quelle scene in cui la loro ispirazione è più «vera» e accordata con maggiore aderenza al sentimento delle testimonianze.
Vautier aveva in mente il film dall’inizio della guerra in Algeria, ma riesce a girarlo (la location è la Tunisia) appunto nel 1972. Così il regista raccontava la sua esperienza al Festival di Cannes, dove il film ha vinto il Gran Prix della Critica internazionale: «Con la troupe dormivamo in un campeggio vicino a Cannes, a La Bocca. Una sera è arrivata una camionetta di poliziotti, ce ne siamo andati senza chiedere nulla. Il giorno dopo eravamo in Algeria, a Annabah per presentare il film. In sala il pubblico ha cominciato a danzare e a fischiareb quando si è saputo che avevamo vinto un premio a Cannes. Un mese dopo il presidente della giuria mi ha consegnato il premio a Quimper … ».

 

 

 

Quando Vautier presenta Avoir 20 ans ... dagli accordi di Evian – che riconoscono l’indipendenza algerina – sono passati dieci anni. Eppure per ottenere il visto di censura il regista sarà costretto allo sciopero della fame, e molte sale in cui il film viene proiettato saranno prese d’assalto – con un attentato a Parigi. In Italia l’opera di Renè Vautier (amico di Marc Scialom, un altro grande narratore critico per immagini del colonialismo in Francia) è pressoché sconosciuto, a parte la citata proiezione alla Mostra di Venezia e poco altro. La sua lezione però è inarrestabile – lo avevamo visto lo scorso marzo, durante il Festival parigino dedicato al documentario di Cinéma du Reel presentare i suoi film – e preziosa pensando alla necessità di inventare un cinema politico specie oggi. E, nel caso italiano, al silenzio sul nostro colonialismo messo a tacere a quasi maggioranza (con pochissime eccezione) dall’immaginario