E adesso? Il 6 gennaio abbiamo visto un assalto postmoderno al potere, uno spettacolo violento e buffonesco che non avveniva a Disneyland, capitale mondiale dell’intrattenimento, ma a Washington, mentre il mondo intero restava incollato agli schermi che trasmettevano le immagini in diretta. Ed erano immagini più rivelatrici delle decine di libri su Trump scritti negli ultimi quattro anni.

Per esempio, c’era tizio travestito da sciamano Sioux, con due corna sulla testa, però la faccia non era dipinta con i colori di guerra dei nativi americani ma con il bianco-rosso-blu della bandiera a stelle e strisce. Si trattava di tale Jake Angeli, uno degli squadristi di Trump noto per la sua propaganda a favore di QAnon, una setta paranoica ma politicamente influente: ha perfino una deputata in Congresso.

Più interessante ancora la foto di un miliziano che si aggirava all’interno del palazzo con la bandiera sudista, quella degli stati schiavisti che nel 1861 scatenarono la guerra di Secessione. Lo scatto è rivelatore perché definisce con chiarezza qual è stata la strategia non di Trump ma dell’intero partito repubblicano dal 1968 in poi: radicarsi nel Sud e mantenere il potere lì a qualunque costo, formando un blocco di voti che hanno permesso al Gop di vincere otto elezioni presidenziali su undici.

E Trump, in perfetta coerenza con questa strategia, ha messo il veto pochi giorni fa alla legge di bilanco sulle spese militari perché offriva la possibilità al Pentagono di rinominare le basi militari ancora oggi intitolate a generali sudisti, cioè ribelli e felloni durante la guerra civile. Il voto è stato scavalcato da Camera e Senato, quindi la legge è entrata in vigore, ma il segnale politico era inequivocabile: è al razzismo di un’America bianca che non si rassegna a perdere il potere che il gangster della Casa Bianca stava parlando.

La foto è stata scattata mentre il tizio con la bandiera passava davanti al ritratto di uno dei fondatori del partito repubblicano storico, quello di Abramo Lincoln, nato per opporsi allo schiavismo e capace di condurre la repubblica alla vittoria contro i secessionisti. Si tratta di Justin Smith Morrill, senatore del Vermont e uno degli autori del XIV emendamento, il pilastro della ricostruzione postbellica, che dava la cittadinanza a chiunque fosse nato negli Usa, ex schiavi afroamericani compresi. Merrill ebbe una lunghissima carriera politica e, nel 1868, votò per l’impeachment del presidente Andrew Johnson, il successore filosudista di Lincoln, assassinato pochi giorni dopo l’armistizio.

Perché occuparsene oggi? Perché gli avvenimenti del 6 gennaio dimostrano ancora una volta che un secolo e mezzo fa il Nord vinse la guerra ma perse la pace: i segregazionisti tornarono al potere nel Sud, usarono il terrorismo del Ku Klux Klan contro gli afroamericani e per 100 anni, fino al Voting Rights Act del 1965, impedirono ai neri di votare. Dagli anni ’70 ad oggi hanno semplicemente cambiato partito, facendo le fortune del Gop e continuando nei tentativi di sopprimere il voto delle minoranze etniche: non è stato Trump bensì i governatori repubblicani di Florida, Georgia, Texas e altri stati a eliminare dalle liste elettorali centinaia di migliaia di afroamericani che avrebbero votato per i democratici.

Torniamo alle immagini: oggi è diventato chiaro quello che già si sospettava nelle prime ore, ovvero che la polizia ha aperto le porte agli squadristi. C’è stato qualche scontro (pochi) e molti selfie. Lo spettacolo ha comportato anche gas lacrimogeni, morti e feriti ma, in tutto 13 (tredici!) arresti fra le centinaia di persone che avevano dato l’assalto al Campidoglio. E non era un’operetta: la sessione che doveva ratificare il voto dei delegati dei 50 stati per il candidato democratico Joe Biden, una procedura esclusivamente notarile, è stata effettivamente interrotta dall’invasione e alcuni tra gli squadristi di Trump hanno cercato di impadronirsi dei documenti che attestavano la regolare elezione di Biden e bruciarli.

La società dello spettacolo ci ha abituato a ogni sorpresa, a serie televisive in cui si susseguono i colpi di scena ma alla fine vincono i good guys e, nella notte, i voti sono stati certificati, ora Biden è certo di entrare in carica il 20 gennaio (se non lo assassinano prima). A Washington si aggiustano i vetri rotti e si cerca di limitare la portata politica dell’episodio. Ma sarebbe fatale dimenticare la dimensione violenta del potere e la determinazione con cui il gangster della Casa Bianca ha cercato di mantenervisi, aiutato in questo dalla stragrande maggioranza dei repubblicani.

Ora il problema politico centrale è cosa succederà dopo il 20 gennaio. Sicuramente la prova di forza dell’altroieri incoraggerà Trump a restare attivo, con il suo gruppo di fedelissimi, appoggiandosi a un network di media di estrema destra e minacciando i «traditori» di usare la sua influenza per fare vendette nel 2022 e nel 2024. La guerra civile all’interno del Gop è appena cominciata e non finirà tanto presto.