Arriva in sala due anni dopo la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia (era in concorso) Good Kill, il nuovo film del regista neozelandese hollywoodiano di Gattaca del quale ritrova il protagonista, Ethan Hawke, ma non l’impronta «autoriale» e anzi appare piuttosto piatto formalmente e nella scrittura nonostante la scelta di un soggetto molto attuale.

Si parla infatti dei droni, i velivoli che si manovrano a distanza nella guerra sporca formato playstation combattuta col sedere «comodamente» incollato alla sedia mentre da qualche parte del mondo qualcuno muore per davvero. L’amministrazione Obama è stata aspramente criticata per l’uso intensivo che ne ha fatto fa in Medio Oriente, con il pretesto della guerra al terrorismo, e anche Niccol non si risparmia. Siamo nella base americana di Las Vegas, dove i militari vivono con le famiglie in casette tutte uguali, giardino e barbecue, il «videogioco» dei droni puntati sul pericolo terrorista manda in brandelli un sacco di gente che non c’entra nulla.

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Sono i danni collaterali, o come dice l’aviere Suarez, unica donna della squadra, un buon metodo per rendere gli Stati uniti, la migliore fabbrica di terroristi del mondo. Protagonista è un tenente, ex pilota con molta esperienze di volo in guerra sugli F-16 – e non come le nuove reclute che arrivano direttamente dai centri commerciali – spostato alle unità dei droni. Il nostro, un Ethan Hawke molto imbambolato, in altri tempi sarebbe stato un reduce, oggi è un impiegato della guerra con crisi d’astinenza dell’adrenalina da combattimento che mortifica la sua mascolinità (ma Bigelow di The Hurt Locker era altra cosa).

Beve, litiga con la moglie figura opaca sullo sfondo attaccata solo all’assegno mensile, e più la guerra dei droni si intensifica sotto il comando della Cia – con molti meno scrupoli più del Pentagono – più lui va fuori di testa. Il fatto è che il «nemico», il terrorista lo guarda in faccia nella sua vita quotidiana prima di ammazzarlo: ragazzini, donne, uomini con un volto e una storia quotidiana scoperta nelle ore di controllo, non le cifre da statistica di morti sotto le bombe in Iraq o in Afghanistan che mediaticamente si liquidano come «vittime civili».

Usando un lessico non troppo disturbante Niccol prova anche lui, come molto cinema e tv americani in questo momento, a raccontare in simultanea la Storia, cosa che per esempio ai tempi del Vietnam era impensabile. E soprattutto alza la posta in una scommessa che è quasi un «double ticket», e molto ambizioso, di una specularità tra «terrorismi». Terroristi sono quelli che minacciano l’America, ma terroristi coi metodi del drone diventano gli stessi americani.

E inseguendo il terrorista che è in lui, l’eroe/antieroe di turno Hawke si prende la sua rivincita ammazzando il maschio talebano che ogni giorno arriva a casa e stupra la moglie – il fatto che lui ogni tanto provi a menare la sua è accessorio. Lo fa, ovviamente, con un drone utilizzato per un buon fine che gli farà ritrovare il sorriso e probabilmente risolvere i suoi problemi virili.

Evviva, certo che questo film avrà avuto molte «buone intenzioni» ma il risultato finisce per ottenere l’opposto. In fondo basta ammazzare il «cattivo» giusto per assolversi, a pacificarsi col lato brutto di sé. Gli altri sono pur sempre terroristi no?