Ha impiegato appena dieci minuti, ieri mattina dalle 8,40 alle 8,50, il Consiglio dei ministri (presieduto dal ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, assente Matteo Renzi), per decidere di impugnare la legge che ripubblicizza l’acqua pubblica in Sicilia, voluta dal governatore Rosario Crocetta. Il metodo, in casi come questo, è sostanza: snobbata dal premier, senza discussione, si è trattato della ratifica di una decisione già presa altrove. Ma tanto è bastato a Davide Faraone, in questo caso nelle vesti di aspirante successore iper-renziano di Crocetta più che in quelle di sottosegretario all’Istruzione, per commentare trionfante: «Non ha senso fare riforme se si sa in partenza che quelle riforme poggiano su presupposti sbagliati».

Viene da chiedere: il «presupposto sbagliato» è l’applicazione del referendum del 2011, quello in cui, inascoltati, 27 milioni di italiani hanno deciso che le risorse idriche dovranno rimanere in mano pubblica? A quattro anni abbondanti da quel voto, i luoghi in cui ciò è accaduto si contano sulla punta delle dita: Napoli, in virtù di una delibera approvata dalla giunta de Magistris che ha riportato l’oro blu in mani interamente pubbliche, e le Regioni Lazio e Sicilia. Non appare un caso che, in entrambe le occasioni, il governo le abbia impugnate davanti alla Corte Costituzionale, così come rivelatore era apparso il caso di Reggio Emilia, dove al Pd locale, scaduto il contratto con la multiutility Iren, è arrivato l’ordine di scuderia del Nazareno: la ripubblicizzazione non s’ha da fare.
Se queste sono le premesse, non stupisce la durata della riunione-lampo di ieri mattina, risolta come una formalità. Invece ministri e sottosegretari avrebbero fatto bene a discutere del minimo garantito di 50 litri a persona previsto dalla legge siciliana, della riduzione dell’affidamento a nove anni, delle fortissime limitazioni ai privati (che potranno vincere le gare solo se presenteranno offerte competitive) e delle multe salatissime in caso di disservizi (dai 100 ai 300 milioni al giorno, da pagare all’Ato di riferimento, fino alla rescissione del contratto in caso di mancata erogazione per più giorni), nonché delle tariffe dimezzate nei luoghi in cui l’acqua non può essere utilizzata neppure per cucinare (accade ancora questo, in Sicilia).

In ballo c’è ben altro, a cominciare dai privatissimi interessi di Siciliacque, società al 25 per cento pubblica e al 75 per cento nelle mani di Idrosicilia spa (a sua volta composta al 60 per cento dalla multinazionale francese Veolia e per il restante 40 per cento dall’Enel), alla quale è stato garantito un business quarantennale che con la nuova legge rischia di sfumare. Quando si parla di «violazione del principio di concorrenza» e delle «regole comunitarie» si intende questo e non altro.

Ma non si fa peccato a sospettare che dietro la vicenda dell’acqua siciliana possa nascondersi pure dell’altro: l’ennesima puntata della campagna di logoramento renziana del governatore Crocetta. Si fa fatica a non pensare che si tratta di una guerra le cui vittime sono gli incolpevoli siciliani e, in definitiva, la volontà popolare.