È stata una corsa contro il tempo quella delle forze golpiste. Con un obiettivo preciso: mettere il mondo davanti al fatto compiuto e non dare tempo al Mas (Movimiento al Socialismo) di riorganizzarsi.

Così, l’autoproclamata presidente ad interim Jeanine Áñez, già ribattezzata come la Guaidó boliviana, si è affrettata, dopo lo show del suo ingresso al Palazzo Quemado con la bibbia in mano, a nominare nuovi vertici militari e a presentare metà della sua squadra di governo, incassando lo scontato riconoscimento di Trump e di Bolsonaro e, per quel che vale, proprio di Guaidó, l’iniziatore della pratica delle autoproclamazioni.

UNA FRETTA ancor più giustificata di fronte alle rivendicazioni della presidente del Senato Adriana Salvatierra, la quale, dopo aver denunciato le pressioni e le violenze esercitate sui parlamentari del Mas per indurli a rinunciare, ha dichiarato di essere stata bloccata e malmenata dalla polizia al suo ingresso nell’Assemblea legislativa. Una mossa, la sua, che rimetterebbe tutto in discussione, dal momento che, se le sue dimissioni, non ancora approvate dal Parlamento, rientrassero, è a lei che spetterebbe la presidenza ad interim.

E intanto i parlamentari del Mas, che bastano da soli a garantire il quorum, hanno dato vita a una regolare sessione alla Camera dei deputati, durante la quale è stato eletto come nuovo presidente della Camera Sergio Choque, il quale ha annunciato un progetto di legge mirato a riportare l’esercito nelle caserme e a lasciare alla polizia il compito della difesa dell’ordine pubblico.

È in mezzo a questa confusione che la nuova ministra degli Esteri Karen Longaric ha celebrato «le prime ore di libertà e democrazia dopo 14 anni», molto ansiosa di «ricostruire la politica estera» del paese e di sostituire gli ambasciatori fedeli a Morales con «persone migliori e più efficienti». Un compito forse non così compatibile con il «carattere strettamente provvisorio» che la presidente ad interim ha attribuito al suo governo, ribadendo la necessità di riconciliare il paese, restaurare la pace sociale e realizzare in men che non si dica libere elezioni.

Ma, mentre il Mas sarà presto chiamato a scegliere se negare qualsiasi legittimità al nuovo governo o accettare di prendere parte alle elezioni – che, paradossalmente, potrebbe anche vincere -, di pace sociale, al momento, non si vede neanche l’ombra.

 

 

Dalla città di El Alto, roccaforte aymara di Evo Morales, migliaia di persone sono scese a La Paz per denunciare il colpo di stato e protestare contro l’autoproclamazione della senatrice Áñez, affrontando la repressione della polizia e dei militari. E lo stesso è avvenuto a Montero e a Yapacani, nel dipartimento di Santa Cruz, dove le forze di sicurezza hanno sparato contro i manifestanti facendo salire a 10 il bilancio dei morti, mentre si estenderà fino a domenica la mobilitazione promossa dal Coordinamento delle sei federazioni di cocaleros del Trópico de Cochabamba allo scopo di consentire a Morales di completare il mandato per cui era stato eletto fino al 22 gennaio del 2020.

E PROPRIO EVO MORALES, dal suo esilio in Messico, ha invocato un dialogo nazionale con la partecipazione di movimenti sociali, comitati civici e partiti politici, sollecitando la mediazione dell’Onu, dei paesi europei e di papa Francesco e dicendosi disposto a fare ritorno in Bolivia per contribuire alla pacificazione, «se il popolo lo chiede». È del resto proprio perché «il popolo lo chiedeva» che, ha spiegato, aveva accettato di ricandidarsi alle presidenziali, senza chiarire però come mai, al referendum del 2016, quel popolo si fosse espresso in maniera contraria.

 

Evo Morales in Messico (Afp)