Andrea Pugiotto è professore di diritto costituzionale nell’Università di Ferrara. Ha scritto diversi articoli e monografie dedicati al potere presidenziale di grazia.

Professore, nella nota del Quirinale si fa riferimento a un provvedimento di clemenza per Berlusconi, specificando la necessità che venga formalmente richiesto. Le pare corretto?

Sì. L’articolo 681 del codice di procedura penale – richiamato nella nota – riconosce l’impulso alla concessione della grazia su domanda del condannato o su proposta di altri soggetti legittimati (ad esempio un suo legale o un familiare). La titolarità del potere porta con sé anche la possibile concessione d’ufficio da parte del Quirinale. In tutti i casi, è messa in moto una complessa istruttoria che sfocia nella decisione del Capo dello Stato, sentito il parere non vincolante del Guardasigilli.

A suo avviso il caso di Silvio Berlusconi rientra tra quelli che in astratto possono essere oggetto di un atto di clemenza individuale?

La risposta è nella Costituzione, così come interpretata dalla Consulta nella sentenza n. 200/2006: la grazia si giustifica solo quale «eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria». Ha uno scopo eminentemente equitativo, dunque, non di politica attiva. Da qui il riconoscimento della titolarità del potere al «Capo dello Stato, quale organo super partes, rappresentante dell’unità nazionale, estraneo al circuito dell’indirizzo politico-governativo». Quella sentenza ha inteso spoliticizzare l’atto di clemenza – fino ad allora abusato – proprio per evitare che una decisione governativa possa interferire con l’operato della magistratura, giudicante e di sorveglianza.

Eppure non sono mancate, in passato, grazie politiche.

È vero, quando erano concesse in serie e supplivano a un mancato provvedimento d’indulto. E tutto si svolgeva in modo opaco e senza garanzie procedurali di sorta, con un presidente sempre con la penna in mano chiamato a firmare quanto deciso da altri. La sentenza della Corte ha segnato uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Il cambio di registro si vede già dalle cifre: per dire, Einaudi concesse 15.578 grazie, Leone 7.498, Pertini 6.095, Cossiga 1.395; Napolitano, il primo presidente a dover fare i conti con la sentenza costituzionale, ne ha finora concesse, non a caso, una ventina.

Tra queste, nessuna è qualificabile come atto politico di clemenza?

La regola fissata in Costituzione è stata seguita fedelmente dal presidente Napolitano. Fino al suo ultimo atto di grazia, concessa il 5 aprile scorso, al generale statunitense Joseph L. Romano, condannato in via definitiva per aver concorso in Italia al rapimento dell’iman Abu Omar, deportato e torturato in Egitto. Leggendone le motivazioni, si è trattato di un atto dettato da ragioni di politica estera. Proprio per ciò è da dubitare della sua regolarità costituzionale. E ciò che non è regolare non è un precedente valido su cui è lecito costruire una prassi. In tal senso, trovo opportuno che il Quirinale, nella sua nota, torni a richiamare espressamente le norme di legge, la giurisprudenza e le consuetudini costituzionali in materia, dalle quali – cito – «il Capo dello Stato non può prescindere».

Ma se il potere di dare la grazia è presidenziale, chi controlla la regolarità del suo atto di clemenza?

Per Costituzione, tutti gli atti del presidente vanno controfirmati, a pena d’invalidità, anche la grazia. È il ministro di giustizia che, controfirmandola, ne attesta la regolarità. Non si tratta di un atto dovuto: se la grazia ha finalità politiche (e non umanitarie) la controfirma va negata, a tutela delle prerogative governative. Non facendolo, il Guardasigilli risponderà politicamente davanti al parlamento, e con lui il governo di cui fa parte.

Dunque se in futuro prendesse forma un atto di clemenza per Berlusconi… 

La Guardasigilli Cancellieri e il governo Letta non potrebbero chiamarsi fuori. Un bel cortocircuito istituzionale: la nota del Quirinale risponde ad una preoccupazione fondamentale di stabilità del quadro politico e di rispetto della separazione tra poteri. Eppure, prefigurando la possibilità di un atto di clemenza, squisitamente politica, rischia di mettere in serie difficoltà non solo la magistratura, ma pure l’esecutivo.

Un’eventuale grazia a Berlusconi inciderebbe anche sulla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici?

Questo è un altro punto molto delicato, perché prefigura la possibilità che un soggetto, interdetto da una sentenza e da una decisione del senato giuridicamente obbligata, venga politicamente riabilitato dalla grazia presidenziale. È un ulteriore prova che ci si sta muovendo fuori dal perimetro costituzionale di una clemenza umanitaria. Segnalo che la nota del Quirinale circoscrive espressamente gli effetti dell’eventuale grazia «sull’esecuzione della pena principale». È una scelta che rientra nelle prerogative presidenziali. In passato lo stesso Napolitano ha, invece, concesso provvedimenti di clemenza riguardanti esclusivamente la pena accessoria, ma solo perché quella principale era già stata espiata o dichiarata prescritta: condizioni in cui non si trova Berlusconi.

Rispetto ai precedenti richiamati dal Quirinale, come incide il fatto che Berlusconi non ha ancora iniziato a scontare la pena e che su di lui pendono altri processi ed altre condanne?

Incide molto. Prima di ogni decisione sulla concessione della grazia vengono sempre svolti rigorosi accertamenti circa il periodo di pena espiato, l’assenza di pericolosità del condannato, gli esiti del processo rieducativo, la condotta tenuta in detenzione. Aggiungo che, secondo il Quirinale, la grazia non può essere concessa a ridosso dalla sentenza definitiva di condanna, perché non è un quarto grado di giudizio. E il presidente Napolitano ha sempre espresso contrarietà a graziare condannati per reati di particolare gravità (e frode fiscale, concussione per costrizione e prostituzione minorile lo sono).

Esclusa, dunque, la praticabilità costituzionale della grazia, l’alternativa della commutazione della pena è meno problematica?

Commutare le pene detentive in pecuniarie è prerogativa del Quirinale, concessa nel «caso Sallusti», evocato in questi giorni. Impropriamente: la condanna di un direttore di giornale per omesso controllo sul contenuto di un articolo assomiglia a una responsabilità oggettiva. La pena detentiva sarebbe stata, dunque, priva del suo scopo rieducativo. da qui la sua giustificata commutazione. Nessuna analogia, dunque, con il caso Berlusconi.

Dunque il problema della «agibilità politica» del Cavaliere non si risolve al Quirinale?

No, se il principio di legalità ha ancora cittadinanza in questo paese. Dove esiste un problema di giustizia negata e di pene che le condizioni delle carceri commutano in trattamenti inumani e degradanti, per i quali l’Italia è condannata dalla Corte di Strasburgo. Ripetutamente, come un criminale recidivo. Entro il 28 maggio 2014 siamo condannati a risolvere un sovraffollamento carcerario «strutturale e sistemico». Invece di cercare salvacondotti ad personam, perché non ragionare di un provvedimento di clemenza collettiva per la Repubblica e la sua legalità costituzionale?