Un esordio affidato a una strategia narrativa insolita e realizzata con successo può rivelarsi, per molti scrittori, l’ipoteca più difficilmente riscattabile, ed è già un merito cedere alle rassicurazioni offerte dagli echi della tradizione romanzesca piuttosto che sperticarsi nella ricerca di qualche trovata capace di replicare l’exploit cui si deve la propria fama. Questo viene da pensare leggendo i racconti che Jeffrey Eugenides ha scritto lungo tutta la sua carriera, ora raccolti nella  antologia pubblicata da Mondadori con il titolo Una cosa sull’amore (traduzione di Katia Bagnoli, pp. 295, euro 20.00).
Ben costruiti, affidati a una voce sicura e dalla tenuta costante, esenti da cadute, tutti i racconti garantiscono quel piacevole intrattenimento che deriva da una esposizione trasparente e mai piatta, capace di scivolare sui fatti non prima di assicurarsi che il lettore possa afferrarne il senso: alle spalle si indovina l’ex studente brillante della Brown University, cresciuto al tempo della moda decostruizionista e degli ultimi fuochi della semiotica, quando – come dice un personaggio del suo ultimo romanzo, La trama del matrimonio – bastava chiedere: «di cosa parla questo libro?» per venire banditi dalla conversazione.

Tesi di un sessuologo
Già allora, tuttavia, l’originalità della voce che nel 1993 aveva raccontato la vicenda di Le vergini suicide si faceva rimpiangere, sebbene Eugenides confermasse la sua capacità di costruire un intreccio convincente, e inventare personaggi credibili, persino stimolanti.
Di tutti i racconti messi insieme dallo scrittore americano, il più singolare e anche il meglio riuscito è datato 1999 e apparve per la prima volta sul New Yorker con il titolo «La vulva oracolare», dal saggio che diede la fama al protagonista, il dottor Peter Luce, massima autorità mondiale in materia di sessualità. Partito per visitare il popolo dei Dawat, il dottor Luce intende studiarne l’organizzazione sociale, rigorosamente finalizzata a scongiurare i contatti con le femmine, considerate sommamente impure, e il rapporto con le quali si limita ai pochi minuti funzionali alla procreazione.

Pazientemente, il dottor Luce sopporta nella sua tenda, dove ha per cuscino alcuni resti di teschi, le insistenti avances di un ragazzo che cerca di compiere il suo dovere, ovvero rifornirsi di sperma, l’elisir dallo stupefacente potere nutritivo per ottenere il quale i giovani vengono allevati a praticare fellatio diurne e notturne, nella speranza di derivarne speciali poteri. Il dottor Luce deve raccogliere una documentazione a suffragio delle sue tesi, che se a noi non appaiono specialmente originali, destarono nella comunità scientifica enorme scalpore, secondo le quali l’identità di genere è come una lingua madre, introiettata verso il secondo anno di vita e indipendente dal sesso, tesi contestata dalla dottoressa Pappas-Kikuchi, temibile rivale dello studioso interpellato dai transessuali del mondo intero e dagli sconvolti genitori di neonati il cui apparato genitale appare ambiguo. Di lì a tre anni Eugenides avrebbe pubblicato Middlesex, la saga familiare di cui è protagonista un ermafridoto, e «La vulva oracolare» ne è prima stesura, una tappa nell’accumulo di materiali narrativi funzionali al romanzo.

Montaggi ben riusciti
La raccolta si apre con il racconto più recente, scritto l’anno passato e titolato «Le brontolone», di cui sono protagoniste due donne, Cathy e Della, una più giovane dell’altra di vent’anni, unite da solidi sentimenti amicali, così che quando l’anziana viene internata in una casa di riposo perché considerata incapace di provvedere a se stessa, l’altra si premurerà di renderle l’ambiente più familiare, poi si risolverà a rapirla dall’ospedale in cui è stata momentanemente ricoverata, e insieme si avvieranno in una casa isolata dalla neve, cavandosela magnificamente. Benché i dettagli siano un po’ triti – la divisione dei ruoli e dei caratteri è scontata, il libro che le amiche leggono insieme si intitola Due donne e funziona come una specie di talismano, l’epilogo vede l’anziana avviarsi inconsapevole sotto una tormenta che si confonde con il turbine dei suoi pensieri – tuttavia il racconto è gradevolmente costruito, anche se nel confronto con l’esordiente di venticinque anni fa, lo scrittore di oggi sembra arretrato all’ambizione di piacevole intrattenitore.

Un montaggio ben riuscito, con inserti caricaturali aggraziati e mai troppo insistiti, riscatta dalla convenzione del tema il racconto titolato «Posta aerea», dove un uomo di Detroit, che sta viaggiando da due mesi in cerca del «suono dell’energia universale», approda in un’isola tropicale del Golfo del Siam, proveniente da Bangkok e prima ancora dall’India.
Si chiama Mitchell come il protagonista della Trama del matrimonio cui Eugenides avrebbe anni più tardi prestato alcuni suoi dati biografici, ma la coincidenza del nome è casuale e non indica alcuna sovrapposizione dei due personaggi: quello del racconto giace da giorni in una capanna, in preda a dissenteria amebica e dunque dolorante, ma più sereno man mano che si prolunga il digiuno cui si è sottoposto onde sottrarre ai processi digestivi energie per «accendere» la mente. Ogni giorno scrive ai genitori lettere che i poveretti ricevono leggendovi l’espressione di un Io delirante: parla loro della realtà come illusione, li informa sui suoi incontri con mendicanti lebbrosi, si rammarica di non avere trovato una cartolina che renda l’idea delle cremazioni cui ha assistito, e rivela loro come lo scopo del suo viaggio sia mettersi in grado di percepire «il flusso dell’universo»: «Ognuno di noi è come una radio sintonizzata perfettamente. Dobbiamo solo soffiar via la polvere dai nostri cavi».

La grazia dell’ironia, che solleva il racconto dalla banalità cui avrebbe potuto destinarlo il contenuto poco originale, viene a Eugenides probabilmente anche dal fatto che qualche deriva mistica non è affatto estranea alla sua biografia: non a caso fa laureare il Mitchell della Trama del matrimonio in storia delle religioni, e gli fa ricalcare i suoi passi inviandolo in India, dove – come fece lui stesso – lavora volontario al seguito di Madre Teresa di Calcutta.

Accade a Chicago
Fra i racconti più riusciti, un ritratto dell’impoverimento della classe media esemplificato dal personaggio di Rodney in «Musica barocca», ambientato negli interni di giovani promettenti ridotti in quasi miseria, ben prima della crisi del 2008: lui talentuso musicista assillato dal creditore delle rate che ha stipulato per comprare un clavicordo della fine del settecento, lei candidata a specializzarsi in musicologia e ridotta a confezionare topolini di stoffa da infilare nel microonde perché sprigionino seducenti effluvi.
Padri e mariti di questi racconti sono uomini votati, in un modo o nell’altro, al fallimento: c’è l’inveterato ottimista di «Multiproprietà», che esibisce al figlio l’ultimo dei suoi investimenti immobiliari, destinato come gli altri a sprofondare in una voragine di debiti; e il protagonista del godibile (ancora una volta per la qualità della scrittura, che si impone sull’epilogo scontato) «Great Experiment», dal nome della piccolissima casa editrice in cui lavora il trentenne Kendall, direttore editoriale investito dall’editore, ex pornografo, del compito di redigere una versione condensata della Democrazia in America di Tocqueville.
Indotto dal commercialista imbroglione a truffare l’ottantenne editore, Kendall sperimenta la frustrazione di ritrovarsi pressoché povero pur venendo da una famiglia benestante: «Se sei così intelligente, come mai non sei ricco? Era la città che lo voleva sapere». La città è Chicago, «fulgida nella luce tardo-capitalista del crepuscolo», e questo l’incipit del racconto, ambientato nell’America di Bush e di Rumsfeld, dove Kendall si ritrova a considerare, con un freddo realismo tradotto da Eugenides in una scrittura sobriamente rabbiosa, che tutto quanto contava «era la vittoria, il potere, l’ostentazione della forza, un linguaggio ambiguo, se necessario».