C’è un via vai diplomatico eccezionale in questi giorni a Teheran. L’accordo di Vienna non è ancora stato ratificato ufficialmente dal Congresso degli Stati Uniti ma da quando si sa che il presidente Obama ha i numeri per farlo approvare – è passata solo una settimana – è partita la corsa europea a chi fa prima a ristabilire fruttuose joint-venture.

Tra i primi ad arrivare questa settimana nella capitale iraniana, i tedeschi del Baden-Württemberg, il land di Stoccarda, interessati a riavviare fin da subito le relazioni industriali. Lunedì scorso, in contemporanea con la delegazione tedesca, è arrivato anche il ministro del Turismo spagnolo per dare il via a un intenso programma di scambi che non si limita alla costruzione di hotel ma riguarda anche i trasporti, l’industria tessile e, naturalmente, il settore energetico.

Sbaglierebbe però chi pensasse che il petrolio sia l’unico o il principale dei settori su cui gli europei e gli statunitensi sono intenti a intessere la nuova trama dei rapporti economici con l’Iran. Il veicolo delle nuove relazioni passa dal cosiddetto “oro blu”, l’acqua.

L’Iran sta cercando faticosamente di uscire da una crisi idrica di proporzioni epocali, che ha avuto il suo picco due anni fa. Ancora oggi gli esperti del World Resource Institute, nella mappa delle riserve naturali proiettata su uno scenario del 2040, preparata in vista del summit mondiale Cop21 (a Parigi il prossimo dicembre), inseriscono l’Iran tra i paesi con un più alto rischio di «water stress».

La colpa non è soltanto dei cambiamenti climatici, che pure incidono fortemente rispetto a un innalzamento delle temperature al suolo, che d’estate superano i 50 gradi, con conseguente inaridimento dei già scarsi corsi d’acqua e vertiginosa evaporazione dei laghi. Il problema principale in Iran ha a che vedere con il modello di consumo e con la mancanza di interventi per rigenerare le riserve idriche, ormai ridotte al 40 per cento.

Da dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 il paese ha vissuto un’economia di guerra permanente, con un forte impulso nazionalistico a potenziare la produzione “autarchica” in agricoltura. Il risultato è stato un dilapidamento delle falde freatiche, acque sotterranee, potabili, spesso estratte attraverso un prelievo incontrollato di pozzi – non autorizzati – che interessa il 92% dei giacimenti sotterranei.

Poi c’è il fattore demografico: la popolazione è raddoppiata negli ultimi quarant’anni. Non solo, si è andata urbanizzando. Abbandonando le pianure semi-desertiche del Sud e le montagne centrali, in città la gente ha acquisito modelli di consumo meno parsimoniosi – a livello globale, del resto, l’uso dell’acqua è cresciuto del doppio rispetto al tasso di crescita della popolazione nell’ultimo secolo – senza che, al contempo, lo Stato degli ayatollah abbia investito in impianti nuovi: come una rete fognaria efficiente e un sistema di depurazione delle acque reflue, mentre mancano quasi del tutto bacini artificiali e impianti di desalinizzazione.

In più, lo sviluppo industriale della Repubblica, procedendo a tappe forzate, incentrato com’è sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, comporta un alto utilizzo di acqua. Due sono i paesi con il record di sfruttamento delle riserve d’acqua del sottosuolo: l’Egitto (al 46%) e l’Iran (al 97%) ma l’Egitto ha il Nilo, uno dei fiumi più grandi del mondo, l’Iran invece non ha bacini di rilievo. Senza contare che nel 2012 il governo Ahmedinejad ha peggiorato lo stato delle cose, liberalizzando di fatto i prelievi illegali e abbandonando la politica di controllo delle nascite in vigore dal 1989 con l’obiettivo di portare la popolazione a 150 milioni di individui.

Nel 2011, sull’onda delle rivolte arabe, quando sono scoppiate proteste nel distretto di Tabriz verso supposti accaparramenti d’acqua ad esclusivo vantaggio dei pasdaran e delle èlite politiche – proteste subito represse -, Issa Kalantari, ex ministro dell’Agricoltura sotto i governi moderati di Rafsandjani e Khatami, ha iniziato a tuonare sul «genocidio ecologico di un popolo», sostenendo – da biochimico laureato nello Iowa e specializzato in Nebraska – che nell’arco di un trentennio l’Iran si trasformerà in un territorio desertico e inabitabile. E Teheran, megalopoli da 13 milioni di abitanti, in una città fantasma.

Per essere ancora più apocalittico, Kalantari è arrivato a dire, nel 2013, che la catastrofe ecologica annunciata era da considerare più pericolosa di Israele e Stati Uniti messi insieme. Kalantari è presidente dell’oasi naturalistica di Urmia, fino a qualche decennio fa un paradiso ricco di fenicotteri, pellicani e cicogne, oltre che culla della religione zorohastriana, un parco esibito dagli Shah della dinastia Palhavi come giardino privato per dignitari, principi e ospiti del jet-set internazionale.

Oggi il lago di Urmia è diventato, plasticamente, l’emblema del disastro ambientale: il lago si è prosciugato, ridotto del 60 per cento rispetto alle sue dimensioni originarie, è un paesaggio lunare, per metà un deserto di sale. Kalantari è tornato pochi giorni fa a sferzare il governo di Hassan Rohani. Rohani è stato il suo capo nel Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, finché Ahmedinejad non l’ha estromesso, e il Consiglio è una sorta di super collegio di studi strategici alle dipendenze della Guida suprema.

Kalantari stimola il suo ex capo, tornato al potere da un anno più forte di prima, perché faccia in fretta a ripristinare uno standard accettabile di efficienza idrica. E lunedì scorso il potente ministro dell’Energia Hamid Chitchian ha annunciato un piano quinquennale di interventi, che riguarda anche la costruzione di una grande diga a Khorramabad, sostenendo che negli ultimi due anni sono state già recuperate riserve idriche nazionali per 750milioni di metri cubi di acqua attraverso la chiusura di oltre 8 mila pozzi abusivi.

Al di là delle dichiarazioni trionfalistiche di regime, l’aiuto più consistente in questa eco-battaglia verrà dal riavvio della cooperazione. Alla fine di agosto – durante la World Water Week organizzata dall’Ifad a Stoccolma con 3 mila esperti internazionali – la Fao ha lanciato un progetto quadriennale in collaborazione con il governo olandese per dotare il territorio iraniano di un sistema tecnologicamente avanzato di monitoraggio satellitare delle acque di profondità e degli sprechi, con una banca dati che dovrebbe essere operativa già a ottobre dell’anno prossimo.

Non deve stupire che l’Iran abbia accettato un telerilevamento satellitare del sottosuolo. A fine agosto Teheran – conferma l’agenzia ufficiale Irna – ha firmato un protocollo per una joint-venture euro-iraniana che prevede in due anni lo sviluppo di una rete di telerilevamento attraverso sensori aerei, palloni aerostatici e satelliti.

Dopo il lancio del suo quarto satellite Fajr (Alba) nel febbraio scorso, gli ayatollah hanno intenzione di potenziare questo settore e non disdegnano, finito l’embargo, il contributo tecnologico di aziende occidentali, evidentemente anche per altri usi. Non sfugge di certo al Consiglio supremo per la sicurezza nazionale – di cui l’ambientalista Kalantari è membro – il valore strategico di queste tecnologie per controllare le frontiere esterne, per la ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi sia off-shore che terrestri e, non ultimo, per il controllo della popolazione.