Entra in scena la paura. La grande protagonista dei 65 giorni del conto alla rovescia di qui all’Election Day.

La paura, tra i democratici, di un secondo mandato per Trump. I settanta minuti dark del suo discorso di chiusura della convention repubblicana la rendono più fondata, giustificata, palpabile.

La paura, tra i repubblicani, che il presidente sovversivo ed eversore sa alimentare specie tra i suoi elettori e sostenitori più militanti: il fantasma di una rivincita degli odiati liberal.

Più amici dei blacks e degli immigrati che dei bianchi, una rivincita che cancellerebbe l’America che considerano la loro America, riportata in auge dal paladino dei miliardari travestito da eroe dei whites sfigati.

LE DUE PAURE si fronteggiano e s’alimentano reciprocamente via via che i sondaggi lanciano messaggi che fanno sperare il fronte democratico e allarmano gli avversari, ma che poi, a ben vedere, non sono così rosei per Biden.

Fanno temere un finale all’ultimo voto negli Stati che contano, e pertanto esposto a manipolazioni e a brogli da parte di Trump, per vincere in prima battuta, o per avere mani libere per non concedere la vittoria al rivale, riaprire i giochi con ricorsi e riconteggi esasperanti, fino all’assurdità di una sua riconferma.

Uno scenario estremo ma possibile. Altro combustibile per la paura di chi teme un paese lacerato, in guerra, non più ricomponibile.

La razionalità farebbe pensare che, anche alla luce dello svolgimento delle due convention, la corsa di Biden e dei democratici verso la vittoria dovrebbe essere agevole. La convention dell’«asinello» è stata un bell’esempio di come la politica possa trovare espressione feconda anche attraverso forme inedite e impreviste di comunicazione come quelle imposte dalla pandemia.

Le assise del Grand Old Party si sono trasformate in uno show televisivo, con un solo protagonista, uno spettacolo mediocre mediaticamente, politicamente insulso, noioso, a dispetto della fama di celebrity televisiva di Trump, quattro giornate che hanno cancellato definitivamente l’idea stessa di un partito storico, quello repubblicano, peraltro in agonia da tempo. Sostituito da una nuova dynasty cafona, dopo l’era dei Bush, la stirpe aristocratica e guerrafondaia, e dopo il tentativo fallito dei Romney di prenderne il posto, con la parentesi infelice di McCain, il tanto esaltato eroe che, associandosi alla pericolosa lunatica Sarah Palin, ha aperto lui la strada alla destra che avrebbe dato alla luce il mostro trumpista.

MA NÉ L’UNA né l’altra convention hanno prodotto il cosiddetto «rimbalzo» che tipicamente si registra nei sondaggi dopo l’enorme esposizione mediatica offerta ai duellanti in corsa per la presidenza. Il metro della razionalità serve poco, dunque, se s’osservano le ripercussioni immediate delle due convention e, in esse, delle performance dei due rivali, buona quella di Joe Biden, il suo migliore discorso dacché è candidato, e particolarmente noiosa, irritante, oltre che inquietante, quella di Donald Trump.

Ma pur nella sua mediocrità, lo show del presidente-candidato ha fatto risaltare un dato che facilmente si tende a confondere nella sua valenza e nella sue conseguenze. Quello che agli avversari e ai critici può apparire uno spettacolo – come s’è detto – di grande mediocrità, può avere una risonanza ben diversa, specie se, come si verificherà nel prosieguo e nel finale della campagna elettorale, il messaggio sarà ossessivamente ripetuto come un mantra.

COME OPPORTUNAMENTE avverte Nathan Robinson sul Guardian, Trump «non è un presidente competente ma è incredibilmente efficace, come ha dimostrato ancora una volta la convention repubblicana».

Quindi non va dimenticata la lezione del 2016, che i democratici avrebbero dovuto imparare e che, a quanto pare, non hanno ancora appreso: «Trump non va sottostimato, e la sua ignoranza non va presa come mancanza di bravura politica». Ma se i numeri dei sondaggi sono ballerini e ancora da prendere con mille cautele, quelli dell’economia sono solidamente fermi nella loro negatività, specie sul fronte delle conseguenze per l’occupazione della pandemia covid, peraltro ancora galoppante.

Il numero dei disoccupati che hanno riempito la domanda di assistenza ha di nuovo superato la soglia, rilevante anche psicologicamente, del milione, dopo che a inizio agosto sembrava scendere. Un numero che si combina impietosamente con quelli del coronavirus, in particolare con le quasi 200.000 vittime che sono il prezzo della sconsiderata conduzione dell’emergenza da parte della Casa Bianca.

QUANTO CONTERÀ nei giorni che verranno il combinato pandemia-disoccupazione? E quanto la capacità comunicativa, o narrativa, come si dice adesso, di Trump e del suo sfidante democratico? C’è anche da chiedersi se avranno un peso, specie nella scelta degli indecisi, l’immagine di un uomo solo da una parte – Trump con l’appendice inutile di Pence – e, dall’altra, di Biden, con una forte compagna di ticket, Kamala Harris, più una compagine di attori di tutto rispetto, in grado di parlare a diversi spicchi dell’elettorato, Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Barack e Michelle Obama.

Un «noi» contro un «io» patoligicamente gonfiato. Una scelta che, anche nella sinistra più scettica, dovrebbe agire come una buona ragione per andare a votare e fare votare.