Mahasweta Devi, la più importante scrittrice indiana in lingua bengali, è morta a Kolkata in un ospedale in cui era ricoverata da sei giorni. Aveva novanta anni. Una grande scrittrice ma anche una grande attivista politica, le due cose sono così intrecciate da non essere separabili. Le sue opere, ben 42 volumi, sono in corso di traduzione in inglese per la Seagull Books di Kolkata. Dai suoi romanzi sono stati tratti diversi film.

Nata nel 1926 a Dhaka quando il Bengala orientale faceva parte dell’India e apparteneva all’impero britannico, aveva 21 anni quando gli inglesi, lasciando il paese, imposero quella divisione del Bengala che provocò uno degli esodi più drammatici della storia. Anche Mahasweta abbandonò quello che oggi è il Bangladesh. La sua è una famiglia di letterati, di loro Mahasweta dice: «Sono nata in una famiglia liberale; le donne erano indomabili, senza paura, selvagge e tutte hanno studiato. Eravamo nove, condividevamo tutto. Così ho imparato ad amare la gente. Oggi queste cose non ci sono più».

Fin dalle elementari studia a Santiniketan, la famosa scuola fondata da Rabindranath Tagore ed è qui che si laurea nel 1942, quando Gandhi lancia contro gli inglesi la campagna Quit India. L’anno dopo, Mahasweta comincia la sua attività politica a Calcutta durante la grande carestia, un’esperienza terribile che segnerà le sue scelte; anche perché la famine, che costò la vita a quasi quattro milioni di persone e ne lasciò in povertà un milione, fu, come sostiene Amartya Sen, creata ad arte dagli inglesi per potere speculare sul prezzo del grano.

Durante le ricerche per il suo primo libro (La rani di Jhansi), nel 1956, Mahasweta Devi comincia a fare storia nel suo modo davvero peculiare. La differenza tra una qualunque scrittrice che si documenta prima di raccontare e Mahasweta è che lei non si limita a fare testimonianza o denuncia, lei resta a lottare e scrive finché le cose non cambiano. È come se facesse la storia due volte, prima raccontando, poi lottando insieme alla gente che è la protagonista delle sue storie e con cui ha un rapporto davvero singolare. Per questo tutti la chiamano Didi.

Oppressi, emarginati, sfruttati, resi legalmente schiavi: sono i popoli di cui i nostri libri di storia non parlano mai, altrimenti dovrebbero raccontare che la nostra civilizzazione continua a cacciarli dai loro luoghi natii per potere distruggere le loro foreste, accaparrare la loro terra, rubare l’acqua e le risorse del sottosuolo. Ecco perché la storia dei subalterni, proprio come quella delle donne, la si può trovare più facilmente nella letteratura che nella storia. È anche su questo che Mahasweta Devi e Gayatri Spivak si sono incontrate e la studiosa postcoloniale ha deciso di tradurre in inglese alcune di quelle storie escluse dalla storia con la S maiuscola.

Le storie di Devi sono storie post-coloniali che narrano le ingiustizie e le discriminazioni, la miseria e lo sfruttamento, la violenza e la crudeltà che decine di milioni di indiani ridotti in povertà, prima dal colonialismo poi dal neo-colonialismo e infine dalla globalizzazione, continuano a subire; sono storie post-coloniali perché, come scrive Spivak, «debbono funzionare con le risorse di una Storia che è stata forgiata dal colonialismo contro il retaggio del colonialismo»; che parlano del drammatico intreccio tra casta e classe, tra religione e casta, tra religione, casta e gender e che hanno per protagoniste le donne subalterne e le popolazioni tribali. Anche per questo la scrittura di Devi è dura e crudele, impietosa e non lascia tregua. Proprio come la globalizzazione. Il suo impegno, oltre che politico è etico perché, come considera Spivak, Didi è sempre stata capace di creare lo spazio discorsivo che consentiva all’Altra, all’Altro di esistere, di parlare e di essere ascoltata. Non è vero che chi è subalterno non può parlare; il punto è che non viene ascoltato.

Per questo l’attenzione di Spivak è sempre rivolta alle donne  che stanno dalla parte sbagliata della divisione internazionale del lavoro e che sono doppiamente marginalizzate dall’economia e dalla subordinazione di gender. È il loro sfruttamento che consente a noi occidentali di far parte del primo mondo, ricco e consumista, con l’illusione di vivere nell’abbondanza perché civili e democratici e loro poveri perché ignoranti, incivili e non-democratici. Il fatto che sia l’Altra donna a consentirci questo tenore di vita e questo spreco di risorse è completamente oscurato perché noi l’Altra donna non la ascoltiamo mai. Il caveat che ci riguarda è la cifra di molti racconti di Mahasweta, da Draupadi a Choli ke pikke, ma è chiarissimo in Stanadayini (La trilogia del seno, traduzione apparsa in Italia nel 2005), che narra la storia di Jashoda, madre di professione. Noi continuiamo a sfruttarla e a ignorarla, continuiamo a nutrirci del suo latte senza mai guardarla in faccia perché ci fa comodo fare finta che non esista. Negandola, alimentiamo il cancro che la sta uccidendo perché è proprio il nutrimento che ci continua a dare che non vogliamo vedere.

Dialogando con Spivak, Devi racconta quanto sono cambiati i tribali con i quali ha lottato per quasi cinquanta anni, «questa capacità di cambiamento – dice – è resistenza alla globalizzazione. La globalizzazione non viene solo dall’America.. Quando gli inglesi se ne sono andati hanno lasciato i nostri cervelli colonizzati ed è così che sono rimasti».