Il 24 maggio di cento anni fa l’Italia entrò nella Grande guerra, la prima guerra di massa del Novecento. Il conflitto, rivelatosi più lungo ed estenuante del previsto, impose all’Italia come a tutti gli altri paesi coinvolti una vera e propria militarizzazione della società e dell’economia. Tutta la nazione fu chiamata a fare sacrifici, a rinunciare alle libertà e agli agi goduti in passato.

Non furono più ammesse proteste, richieste di diritti o proposte alternative sull’organizzazione della società e dell’economia. Il sindacato e le opposizioni furono chiamati ad assumere un atteggiamento collaborativo, per raggiungere il fine supremo della vittoria. Come in tutti gli altri paesi belligeranti, anche in Italia si pose il problema di reperire in tempi rapidi una manodopera in grado, per qualità e quantità, di sostituire gli uomini che avevano imbracciato il fucile: si trattava di garantire nutrimento, vestiario e armamenti sufficienti ai circa cinque milioni di soldati reclutati fra il 1915 e il 1918, in prevalenza provenienti dal mondo agricolo.
Il sacrificio imposto a milioni di uomini e donne comportò la ricerca di nuovi strumenti di consenso e tutela della popolazione. Per questa ragione la stessa guerra che costrinse alla morte milioni di lavoratori, strappati alle loro povere esistenze senza sapere perché, contribuì per altro verso allo sviluppo dello stato sociale europeo, profondamente condizionato dall’esperienza bellica.

Oggi, a un secolo di distanza da quei fatti, in uno scenario europeo che più diverso non si potrebbe immaginare, il discorso pubblico sembra recuperare alcuni elementi retorici tipici di un’economia di guerra, senza che però ve ne siano le premesse e la necessità. Oggi tutta la nazione viene chiamata a fare sacrifici, a rinunciare alle proprie tutele e ai tradizionali spazi democratici di dibattito e contrattazione: non c’è tempo, bisogna fare in fretta e realizzare le «riforme». Lo spread, il nuovo nemico invisibile, è alle porte. Questi ragionamenti, espressi dal governo e da gran parte dell’attuale classe dirigente, potrebbero avere una qualche giustificazione se ci trovassimo davvero a dover imbracciare i fucili contro un nemico esterno, o comunque a dover fronteggiare un’emergenza naturale imprevista. Invece questo genere di discorsi, che parrebbero riportarci alla Grande guerra, vengono fatti in ossequio all’ideologia del libero mercato, alle scelte politiche neoliberiste spacciate come vincoli naturali e agli interessi delle élites finanziarie che lucrano sulla crisi economica. Nonostante le analogie, c’è dunque una differenza fondamentale fra lo scenario del ’15-’18 e quello attuale: lo spirito dei sacrifici e la sordina allora posta al conflitto sociale erano controbilanciati da un ruolo dello stato che era l’esatto opposto di quello attuale. Nella storia europea la prima guerra mondiale svolse infatti un ruolo cruciale nell’evoluzione dei rapporti fra lo stato e l’economia, a tutto vantaggio del primo. Paradossalmente, pur fra mille contraddizioni e al prezzo di enormi sacrifici umani, la prima guerra mondiale accelerò lo sviluppo dei sistemi di protezione sociale e introdusse un nuovo criterio per l’azione politica: prima lo stato, poi l’economia. Fu allora che vennero poste le basi per la filosofia dell’economia mista, dello stato come attore fondamentale per ottenere la crescita più veloce possibile dell’apparato produttivo.

Il concetto di pianificazione così come quello di piena occupazione entrarono permanentemente o quasi a far parte della riflessione economica, sociologica e politica dell’Europa. Questo cambiamento fu consolidato dall’avvio dell’esperimento sovietico, anch’esso scaturito dalla guerra. Lo comprese bene William H. Beveridge, padre del moderno stato sociale, il quale sul finire del successivo conflitto mondiale pose le basi per le politiche di piena occupazione realizzate in Gran Bretagna nel quinquennio postbellico, fondate sulla compenetrazione fra economia pianificata ed economia di mercato. Ragionando in termini storici dobbiamo dunque sfruttare questo centenario per chiederci: è possibile che nella storia dell’Europa contemporanea gli avanzamenti sul terreno delle politiche economiche e sociali siano derivati principalmente dalle grandi guerre? La risposta a questa domanda, come si può facilmente intuire, ha non poche implicazioni per il presente.