Tempo fa, nel vivo della polemica tra Renzi e D’Alema, quest’ultimo, con una punta di perfidia, osservò che, quando le cose si fossero messe male per Renzi, per paradosso, sarebbe toccato a lui prenderne le difese. Palesemente una sarcastica provocazione, tesa a rimarcare il fenomeno dell’opportunismo di massa rappresentato dalla legione di quanti erano saliti sul carro del vincitore, pronti a mollarlo non appena il vento e la sorte fossero cambiati.

DAVVERO UN FENOMENO impressionante: si pensi ai montiani di vario rito passati alla corte di Renzi e che fischiettano quando egli dipinge Monti come il Dracula cui imputare tutti i nostri problemi con Bruxelles; all’incredibile approdo al Pd renziano di un’allegra pattuglia di ex Sel nelle stesse ore in cui si varava il Jobs Act, cioè il provvedimento più ostico per una sensibilità di sinistra; penso agli ex Ds, tipo Orfini, che criticavano da sinistra i governi Prodi e ora si sono ridotti a zelanti pretoriani del renzismo, evidentemente concepito come inveramento dei più puri ideali di sinistra. Quando si traccerà un bilancio, anche di natura etica, di questa stagione, immagino che dovremo registrare l’impennata dell’opportunismo/trasformismo. Più esteso di quello conosciuto Berlusconi regnante, che comunque aveva mezzo paese schierato contro, establishment compreso.

ANCORA NON SIAMO al punto evocato da D’Alema. Non escludo che ci si arrivi. Siamo forse in un tempo mediano. Quello in cui ancora un buon numero di capi o ex capi delle molteplici tribù Pd sostengono Renzi al congresso, non senza riserve e distinguo a fatica malcelati in pubblico. Quello in cui altri, segnatamente Andrea Orlando, dopo tre anni di stretta, organica collaborazione politica e istituzionale con Renzi segretario e premier (a fatica si ricordano un paio di interviste con esili distinguo sulla suggestione del «partito della nazione»), fanno un passettino in più e lo sfidano al congresso. Con motivazioni e su una piattaforma intessuta di buoni argomenti critici verso il corso renziano, tuttavia clamorosamente tardivi e dunque di improbabile credibilità.

ORA UN PO’ TUTTI, chi esplicitamente, chi a mezza bocca, muovono a Renzi i seguenti rilievi: un esercizio della leadership divisiva, la totale incuria per il partito di cui è stato segretario, la fallace presunzione di autosufficienza di cui era figlio l’Italicum, un posizionamento e politiche inadeguate rispetto alla portata della questione sociale, un ottimismo di maniera in contrasto con il sentimento e la condizione materiale del paese, una politica economica ispirata più alla ricerca del consenso che non concentrata su misure strutturali mirate alla crescita, un appiattimento sull’establishment, una rincorsa emulativa dell’antipolitica a bassa intensità che fu la cifra della campagna referendaria. Non è poco. Benvenuti tra noi. Ripeto: ancora non siamo al punto da dover prendere le difese di un Renzi reietto e abbandonato. Tuttavia, già ci si può chiedere dove stavano i vari Veltroni, Fassino, Franceschini, Orlando che si sono stracciati le vesti per la scissione fingendo di ignorare che essa, prodottasi in apparenza su motivazioni politiciste un po’ oscure ai non addetti ai lavori, è stata semmai tardiva e comunque risponde a serie ragioni politiche visibili da gran tempo. Solo qualche domanda.

A VELTRONI: davvero il partito della nazione inclusivo verso il centro (destra) e che disattende di rivolgersi a sinistra aprendo un’autostrada a nuove iniziative è coerente con il modello di una democrazia competitiva tendenzialmente bipolare? A Fassino: niente da eccepire da parte dell’ultimo segretario Ds su un partito ridotto a predellino del capo, i cui organi di direzione politica eletti a strascico delle primarie del leader si risolvono nel rito della ratifica plebiscitaria di decisioni assunte altrove? A Franceschini: che fine hanno fatto la cultura della mediazione politica e la sensibilità sociale proprie del cattolicesimo democratico a fronte della enfasi sulla cifra della «disintermediazione» tra il capo e il suo pubblico?

A ORLANDO, che ora palesemente mira a intestarsi il meglio della tradizione della sinistra interna al Pd, sia nella policy che nelle policies: come non chiedersi se il corso renziano, cui lui ha cooperato organicamente, non rappresenti un visibile deragliamento dal portato di quella tradizione? Domanda che a fortiori sarebbe da porre a Napolitano, a lungo alto sponsor e garante del renzismo.

NON DIFENDO RENZI. Il contrario. Ma sono molti coloro che devono essere chiamati a responsabilità e un nuovo corso difficilmente può essere affidato a chi ha contribuito, attivamente o per omissione, a una stagione sulla quale si vanno moltiplicando i giudizi critici.