Richard Baldwin è uno storico dell’economia globale con il gusto del paradosso perché non ama cullarsi nelle rassicuranti spiegazioni della costellazione teorica alla quale fa comunque riferimento (il pensiero economico neoclassico innaffiato da un generoso sorso di distillato keynesismo). Ad esempio, nel tornante tra anni Novanta e nuovo millennio, ha cominciato ad accumulare dati e riflessioni sul ruolo della conoscenza nel processo capitalistico. Insofferente verso la retorica del «capitale intellettuale» allora imperante, ha scelto di raccontare lo sviluppo economico da una prospettiva «culturalista».
Docente statunitense, da anni insegna anche in Svizzera, un osservatorio, per sua stessa affermazione, privilegiato che permette di studiare da vicino i processi di integrazione economica europea (The economics of European Integration, Fifth Edition). Questo suo La grande convergenza (Il Mulino, la recensione è uscita sul manifesto del 1 agosto, https://cms.ilmanifesto.it/il-sistema-operativo-che-domina-il-pianeta/) è da considerare la chiusura di un percorso di ricerca, ma anche l’apertura di un altro ancora in via di definizione che vuol fare i conti con la grande trasformazione in atto.
È il dato emerso anche nella lectio magistralis che Baldwin ha tenuto per l’annuale appuntamento della casa editrice bolognese il Mulino. In quella sede, ha provato a raccontare il mondo di star trek dove uomini e donne vivono. Un mondo dove la science fiction è divenuta realtà e in cui il gioco di ombre e luci sull’ignoto va ben al di là della necessità di qualche sapiente che illumini la caverna.

Nel libro «La grande convergenza» lei sostiene che la tendenza globale del capitalismo sia una sua caratteristica immanente. Ne descrive tre momenti, che si sono succeduti secondo uno schema evoluzionista. Inizialmente, si è consolidato un parziale mercato globale favorito dalla compressione della distanza tra produzione e consumo (si abbassano i costi per spostare le merci, le materie prime). C’è poi la riduzione dei costi delle tecnologie che hanno favorito l’irrilevanza dei confini e delle frontiere tra paesi. Siamo ora in una fase caratterizzata da una riduzione radicale dei costi «di produzione», di conoscenza e informazioni. Da qui la pressante richiesta, talvolta con un sapore xenofobo e nazionalista, di una riqualificazione dello stato nazionale e degli organismi internazionali (Wto, Wipo, Banca mondiale, Fmi). Cosa pensa del loro ruolo?
Gli organismi internazionali, così come si sono formati nel corso del tempo, sono stati essenziali nella produzione della ricchezza. Ma contraddittori nel loro operato. Hanno favorito il consolidarsi e l’approfondirsi di una gerarchia di potere tra nazioni, con conseguente redistribuzione ineguale della ricchezza tra nazioni e all’interno delle singole società capitaliste). Inoltre, il Fmi, la Banca Mondiale, il Wto e, in maniera distinta, anche la Wipo, hanno rafforzato e non ridotto le capacità degli stati nazionali nella gestione degli effetti tellurici della globalizzazione. Le esperienze del Brasile, della nazione arcobaleno del Sud Africa, della potenza economica della Cina sarebbero impensabili senza il ruolo che hanno avuto queste forme politiche nazionali. Tra nazionale e globale esiste, da sempre, una dinamica di interdipendenza. A noi il compito di capire come funziona questa interdipendenza.

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Lei scrive sui flussi di conoscenza (quella tecnico scientifica e «tacita») e di ecosistema dell’innovazione. Cosa intende con queste espressioni?
Le maggiori dieci imprese globali, molte di origine statunitense, sono aziende che hanno nel loro core business la produzione di conoscenza e informazioni. Al grande pubblico sono ormai noti i marchi di Apple, Amazon, Google. Accanto a questi loghi, però, hanno cominciato a fare capolino – in maniera sempre più evidente – centri di ricerca privati o pubblici, università, che grazie a una legislazione nazionale e a norme internazionali (i Trips, assieme alle norme internazionali su copyright, marchi, brevetti) possono fare business con i risultati del loro operato.
Gli economisti Jonathan Haskel e Stian Westlake hanno pubblicato Capitalismo senza capitale (in Italia edito da Franco Angeli, recensito il 23 novembre su il manifesto), un saggio dove hanno riassunto la costituzione di questo complesso produttivo che forse è meglio qualificare proprio un ecostistema che presiede ormai il funzionamento del capitalismo stesso. Questo comporta, scrivono, un necessario adeguamento dei sistemi di valutazione sia nell’operato delle imprese, che in quello di università e centri di ricerca. È il computo della contabilità nazionale, di impresa e della produttività lavorativa che va adeguato all’ecosistema dell’innovazione. Vale per i paesi del G7, ma è anche evidente per la Cina, che sta trasformando l’intera sua economia in economia della conoscenza.
Queste imprese globali hanno dunque trasformato un bene non esclusivo – chi usa una formula matematica non può impedire che altri facciano altrettanto – all’interno di una dinamica sociale dove conoscenza e bassi salari sono andati a braccetto. La differenza tra conoscenza tacita e formale? Un bel rompicapo. La prima deriva dall’esperienza individuale e collettiva, dalle tecniche di apprendimento e rielaborazione; la seconda da procedure socialmente riconosciute su come si fa ricerca, sulle modalità di verifica dei risultati e su come si socializzano. Sono due aspetti complementari proprio dell’ecosistema dell’innovazione.

Dopo il 2007-2008, si è alzato un rumoroso «de profundis» sulla globalizzazione. Qual è il suo punto di vista?
C’è un altro equivoco che accompagna la discussione sulla globalizzazione. C’è una lettura della globalizzazione come produzione di un mondo che è una superficie liscia, omogenea, dove tutto è sempre eguale, in ogni parte del pianeta. Niente di più errato. La globalizzazione è il regno delle differenze. Le economie devono cioè diversificarsi, specializzarsi, evitare come la peste la riproduzione del già noto. Devono puntare sull’innovazione. Fenomeni talvolta presenti, ma non fondamentali. È però inutile nascondersi dietro un dito evitando le difficoltà attuali.
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, così come la Brexit hanno e continuano a mescolare le carte. Vedremo cambiamenti, variazioni di prospettiva di medio e lungo periodo. Inoltre, la cosiddetta guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina sta assumendo le tonalità inquietanti di una nuova Guerra fredda. Detto questo, continuo a non vedere segnali forti di deglobalizzazione. A farsi largo sono variazioni di uno spartito economico, sociale e politico: una globalizzazione basata su conoscenza, innovazione, all’interno di una nuova gerarchia di potere tra imprese, Stati, formazioni sociali.

Dopo lo scandalo Cambridge Analytica, sono diffuse le richieste di una maggiore protezione della privacy e una limitazione della raccolta e mercificazione dei dati personali. C’è però il rischio che la privacy – più che un diritto – diventi un bene da acquistare sul mercato. Chi ha più soldi, potrà avere più privacy. Una sorta di «digital divide» attorno a un diritto – la riservatezza e i limiti delle ingerenze dello Stato e delle imprese nella vita privata – ritenuto fondamentale in una democrazia. Qual è il suo punto di vista?
Mi limito a dire che la recente norma europea a difesa della privacy va nella giusta direzione di tutela della privacy dei singoli. È infatti essenziale che i singoli abbiano il potere di disporre dei loro dati personali, che non siano di proprietà esclusiva delle imprese che se ne appropriano. Sono rimasto colpito positivamente da alcuni scritti di Erica Posner e E. Glein Weil che nei loro libri e sul sito radical market (radicalmerket.com) affermano che questa partita sulla proprietà e libertà di disporre dei dati personali è forse il conflitto più duro, meno facile da gestire nella grande convergenza. Sono posizioni teoriche e politiche che hanno ispirato molte delle mie riflessioni recenti sulla globalizzazione che verrà.
«La grande convergenza» è anche il contesto dove sono cresciute feroci disuguaglianze sociali. Possono gli Stati nazionali e gli organismi internazionali lavorare affinché tale ineguale redistribuzione del reddito possa essere ridotta?
La risposta non può che essere apodittica. Gli stati nazionali e gli organismi internazionali devono lavorare per ridurre la forbice tra ricchi e poveri e la ricchezza dovrà essere redistribuita a livelli socialmente necessari.