«Perché il conflitto prosegue? Tutto sommato è semplice: per una questione di potere. Se ai Talebani se ne concedesse una parte, se fossero coinvolti nel governo, il conflitto cesserebbe». Giovane attivista sociale e collaboratore del Civil Society Development Center di Jalalabad, una delle organizzazioni della società civile organizzata afghana, Wahidullah Danish sembra avere le idee chiare. Per lui, il conflitto è un problema innanzitutto politico. E la politica ha a che fare, molto semplicemente, con il potere: chi ce l’ha lo difende; chi non ce l’ha lo reclama anche con le armi, e se lo avesse rinuncerebbe a combattere. Una logica universale che vale soprattutto per l’Afghanistan, sostiene Danish, per il quale il negoziato è l’unica via per porre fine a una guerra che ha provocato fin troppi morti, soprattutto tra i civili.
Se l’idea dei colloqui di pace è sostenuta dalla maggior parte della popolazione afghana, sull’ipotesi che i Talebani possano far parte di un eventuale futuro governo di «ampia coalizione» le opinioni sono molto discordanti. È ciò che risulta da una ricerca condotta da chi scrive in 7 diverse province del paese per il network Afgana (www.afgana.org), che verrà presentata a settembre. Anche Wahidullah Danish ammette che la questione è delicata: «Il governo deve sforzarsi di ottenere la pace. Se questo vuol dire condividere il potere con i Talebani, valutare le loro richieste, deve essere disposto a farlo. Ma senza contraddire le nostre leggi. Il problema – riconosce Danish – è sapere quali diritti chiedano i Talebani. Sono gli stessi che chiedo io e la maggior parte degli afghani?».

La posizione di Danish non è isolata in Afghanistan, dove a causa di decenni di guerra intermittente ma ininterrotta il pragmatismo prevale sulle considerazioni ideali. Per questo, soprattutto nelle aree dove più si combatte e dove più si soffrono le conseguenze della guerra, c’è chi pensa che i Talebani potrebbero perfino tornare al potere, se questo servisse a porre fine al conflitto. Il sostegno all’ipotesi di un governo di “ampia coalizione” è dunque funzionale all’ottenimento della pace, non deriva dal consenso versi i gruppi antigovernativi. Al contrario, i “turbanti neri” vengono perlopiù considerati inattendibili come interlocutori politici, specialmente nelle aree urbane.
Anche per questo, prevale l’idea che prima di dare vita a un governo simile i Talebani dovrebbero soddisfare alcuni criteri inderogabili: riconoscere la legittimità e l’autorità del governo e dell’attuale sistema politico; rinunciare alla lotta armata e ai legami con gli attori esterni. Soprattutto, come non smette di ribadire il presidente Karzai, dichiarare il rispetto della Costituzione. «Non ci vedo nulla di male nel condividere il potere con quei Talebani che sono afghani e che vogliono davvero la pace. Ma ciò deve avvenire seguendo i principi della Costituzione, senza contraddirla», sostiene per esempio Ali Erfan, giornalista, vicedirettore dell’Afghanistan Independent Radio Association e direttore di Radio Bamiyan. «Non deve più accadere che le donne siano costrette a casa, o che i diritti umani siano negati. Se succedesse, sia la Nato che la comunità internazionale perderebbero del tutto prestigio e credibilità». Anche per Zia Urraham Tariq, membro della sezione di Jalalabad del Civil Society and Human Rights Network (Cshrn), uno dei network più estesi della società civile, il riconoscimento della Costituzione assume un valore fondamentale: «Se accettano le nostre leggi, soprattutto la Costituzione, se rispettano le nuove consuetudini sociali, non vedo ragioni per impedire anche ai Talebani di andare al potere. D’altronde dal governo spesso arrivano appelli a prendere parte in modo trasparente e onesto alle elezioni del 2014, e, se eletti, a occupare posti di potere», ricorda Zia Urraham Tariq. «Non avrei problemi ad accettare degli esponenti talebani al governo, se riconoscessero apertamente la legittimità e la validità del quadro legale afghano, insomma la Costituzione», conferma a Mazar-e-Sharif, nella parte settentrionale del paese, Yor Mohammad Bakhiri, docente all’università privata Ibn Sina. Un discorso simile vale per l’energica coordinatrice del Cshrn per l’area occidentale, Aziza Khairandish, che incontro a Herat: «Nel governo e nel parlamento già ora c’è gente con una mentalità retrograda ed estremista, penso ai rappresentanti del partito Hezb-e-Islami. I Talebani sono tanto diversi? Se decidono di rispettare la Costituzione e i diritti delle donne non ci saranno problemi», sostiene Aziza Khairandish, prima di puntualizzare: «Ma dobbiamo essere chiari: se così non sarà, è inaccettabile che entrino a far parte di un futuro governo o che ci sia un’amnistia che condoni i loro reati».
Per Aziza Khairandish, come per molti altri afghani, la Costituzione ha un fortissimo valore simbolico: rappresenta la fine del regime talebano, il passaggio in un’altra era politica. Un’era piena di difetti, contraddizioni e incongruenze, che però non bastano a far rimpiangere gli anni in cui la vita sociale era dettata dalle rigide leggi dell’ortodossia talebana.

Per qualcuno, quell’ortodossia rimane tale ancora oggi e parlare di un governo di ampia coalizione è solo un esercizio retorico, perché i Talebani continuano a essere quelli di una volta. Sembra pensarla così la governatrice della provincia di Bamiyan, Habiba Sarabi: «Difficile dire se sia possibile in futuro dare vita a un governo al cui interno ci siano anche i Talebani. Certo, se continuano a essere quelli di prima, quelli che non rispettano i diritti di nessuno e tanto meno delle donne, sarei molto preoccupata di una simile ipotesi», mi ha detto nel suo ufficio, nella parte alta della cittadina di Bamiyan. Se lo scetticismo della governatrice si basa sull’idea che i Talebani incarnino valori incompatibili con quelli della maggior parte degli afghani, per altri è legato al sospetto verso chi sembra ricercare un potere assoluto: «Sarei d’accordo con un governo di ampia coalizione. Temo però che per i Talebani sarebbe impossibile rispettare la Costituzione e condividere il potere. Lo vogliono tutto per sé», mi dice Nawroz Raja, giornalista molto conosciuto a Bamiyan, nella parte centrale del paese, a maggioranza hazara. «La natura dei Talebani esclude che possano collaborare con altri. Anche quando erano al potere, hanno governato da soli. Trovo molto difficile che accettino un processo di pace e ancora più difficile che possano far parte di un governo di ampia coalizione», mi spiega a Herat Abdul Khaliq Stanikzai, responsabile per l’area occidentale dell’organizzazione non governativa Sanayee Development. Stanikzai sottolinea la contraddizione tra la forza militare dei Talebani e la loro debolezza politica: «Non sono in grado di proporre un’agenda politicamente articolata che sia accettabile da altri attori politici. Rigettano le istituzioni. Difficile che decidano di farne parte. Pensano soltanto al loro modo di governare il paese e a nient’altro», aggiunge. A Mazar-e-Sharif gli fa eco Hamid Ghulami, direttore dell’università privata Ibn Sina: «Se accettassero la Costituzione non ci sarebbero problemi. Ma dobbiamo essere realisti: non l’accetteranno mai, perché non ritengono che sia legittima». Ghulami suggerisce una soluzione duplice: «Combatterli e allo stesso tempo conoscerli meglio, parlarci, educarli. Bisogna puntare anche sull’educazione e sulla negoziazione. Ma serviranno ancora molti anni perché ci siano dei frutti».

In attesa che maturino i frutti della soluzione suggerita da Ghulami, in alcune aree del paese, soprattutto quelle che più hanno sofferto il regime talebano, rimangono molti dubbi e timori sull’opportunità di riportare i Talebani al governo, una soluzione che altrove sembra invece l’unica veramente efficace. «Sappiamo che molti Talebani non sono afghani ma vengono da fuori. Non possiamo accettare qualunque condizione ci impongano. Di certo non accetteremo le condizioni di una volta, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle donne nella società», sostiene Nazira Hamadi, responsabile per il nord del paese dell’Afghan Civil Society Forum. «Ho letto e sentito che i Talebani seguirebbero regole nuove, diverse dal passato. Spero che sia vero, che siano cambiati davvero; se così non fosse, nessuno ne accetterà il ritorno al potere, anche se diviso con altri». Ancora più esplicito è Ali Asghar Arghash, che nella provincia di Faryab, al confine con il Turkmenistan, lavora per una Ong internazionale: «Se, dopo la sconfitta dei Talebani, l’obiettivo degli americani è diventato quello di trovare un accordo politico con loro e portarli al governo, mi chiedo per quali ragioni abbiamo deciso di venire fin qui con la storia dei diritti umani. Se ci sarà un accordo del genere, i paesi che si sono impegnati in questi anni verranno condannati dalla storia. L’accordo con i Talebani non va trovato. I Talebani non possono più governare l’Afghanistan». Altrimenti – si chiede retoricamente Ali Asghar Arghash – «che senso avranno tutti gli sforzi fatti dopo l’11 settembre?».