Quante volte Pietro Ingrao ha sottolineato la bella differenza che corre tra le dichiarazioni politiche belle e generose del «dì di festa» e la routine quotidiana, ben più ispida e triste. E così, mentre si sono sprecati gli elogi a Paolo Sorrentino, fresco vincitore dell’Oscar con «La grande bellezza»- corredati di impegnate promesse sul rilancio del cinema italiano- a Cinecittà crescono le erbacce. Come dicono i cultori del mercato si tratta di un «brand» secondo solo alla Ferrari nella riconoscibilità internazionale. Tuttavia, il fantastico polo produttivo di via Tuscolana, straordinaria fabbrica dell’immaginario dove con Fellini sono passati un po’ tutti, grandi e meno grandi, è sceso agli ultimissimi posti dell’agenda di governo. Dell’esecutivo nazionale e degli organismi locali.

Facciamo un passo indietro. Il 4 luglio del 2012 iniziò una pacifica occupazione della zona antistante agli studi da parte di lavoratrici e lavoratori esasperati dalle incongruenze della gestione privata dell’azienda e del presidente Luigi Abete. I rischi concreti erano lo spezzettamento del settore, affidato alla società Deluxe – con l’affitto alla parte digitale per cinque anni senza recesso, e al ramo «Italia» della medesima per tre con possibilità di soluzione contrattuale- nonché con la cessione alla «Panalight». Viva l’America. Inoltre, la «vendita» di altri addetti alla società Cat.

In verità, il sottotesto della vertenza era il pericolo di un’imminente spoliazione degli stabilimenti, magari chiusi e sostituiti da alberghi e abitazioni. Dietrismo complottardo? Speriamo, ma la tentazione è antica e i corsi e ricorsi delle culture palazzinare romane sono costanti. La lotta continuò fino al 26 settembre (insomma, quasi tre mesi, la battaglia di maggiore valore insieme alla straordinaria mobilitazione attorno al teatro Valle) e ottenne un primo risultato: se pure ci fossero state, le velleità cementificatrici furono accantonate e la minaccia di licenziamenti rientrò. Alla Cat non fu ceduto nessuno. Il ministero dei beni culturali certo non brillò e, in generale, il mondo politico battè ben pochi colpi. Al contrario una consistente parte del cinema italiano – e internazionale, a cominciare dalla Francia – si mobilitò intervenendo direttamente attorno all’«occupazione».

L’intesa sindacale , assai costosa per il lavoro vivo, fu infine strappata: ma la solidarietà comportò la decurtazione del 40% di salari già bassi. E poi? Il silenzio, con la sostanziale assenza degli interlocutori. Anzi. Da ultimo, il pomposo annuncio dell’apertura di «Cinecittà world», vale a dire il parco a tema costruito sulle aree degli ex stabilimenti De Laurentiis della via Pontina. Con tanto di finanziamenti. Nel frattempo, Abete parrebbe persino non pagare l’affitto al Mibac, forse come ennesima arma di ricatto. Infatti, in questi giorni si contano diversi licenziamenti, si preannuncia la fine dell’affido a Deluxe Italia e si agita lo spettro della cassa integrazione. Si avvicina, dunque, il finale di partita? Qual è il futuro per i professionisti che resistono, dotati di qualità difficilmente riproducibili?

Che fa lo stato? Perché a questo punto – visto che l’inquilino privato neanche paga il dovuto – non si riprende Cinecittà? Magari con la costruzione di un polo europeo di produzione e formazione, in accordo con la Rai. Se i saperi sono un bene comune, ecco l’occasione per dimostrarlo.

Oggi si tiene un sit in davanti al ministero. Che la storia ricominci, visto che la grande bellezza è il cinema, che non morirà (la pellicola è un gioiello, Ferrania docet) con l’avvento della tecnica digitale. Al contrario. Se si moltiplicano i mezzi, devono moltiplicarsi anche i messaggi.