La mostra Rubens, Van Dyck, Ribera La collezione di un principe – alle Gallerie d’Italia di Napoli, fino al 7 aprile – affronta una pagina poco nota nel panorama culturale barocco. Recupera alla coscienza collettiva la memoria collezionistica del mercante-banchiere fiammingo Jan Vandeneynden e di suo figlio Ferdinand, cui appartenne palazzo Zevallos Stigliano (la sede del museo) nel Seicento.
Favorita da una capillare iniziativa d’impresa che si estese a ogni genere di commercio e raggiunse le più alte sfere del Viceregno, la famiglia di magnati fu protagonista di una straordinaria scalata che la portò a occupare il centro della scena economica. C’è stato addirittura un tempo in cui parte delle tasse dei napoletani finiva direttamente nelle sue casse per recuperare i debiti della Corona spagnola. Desiderosa di entrare nella schiera dei cittadini più ragguardevoli, fece del suo meglio per soddisfare tutti i requisiti della buona società: acquistò il marchesato di Castelnuovo, s’integrò matrimonialmente col più antico patriziato italiano (Carafa, Colonna e Piccolomini), eresse un palazzo fastosamente barocco nella centrale via Toledo (carpito con una spregiudicata operazione finanziaria che faceva leva sui debiti di gioco dei duchi Zevallos). C’è di più: i Vandeneynden spesero una parte importante della propria fortuna a creare quella che dovette essere una delle più sensazionali quadrerie napoletane nel Seicento.
I fatti (a cominciare dall’inventario stilato da Luca Giordano nel 1688) dimostrano che questi mercanti amarono circondarsi, anzi sovrastarsi, dall’arte. La loro fu una raccolta rara e magnifica nel contesto napoletano, e restò indimenticabile agli occhi dei dilettanti e degli amatori anche quando una serie di concomitanze negative ne frantumò l’unità. La mostra riunisce alcuni tra i dipinti custoditi originariamente nella residenza, oggi dispersi, anche e perlopiù implicitamente, nei musei e nelle raccolte private di tutto il mondo: dalla Scena comica con bambino in maschera scintillante di allegria di Annibale Carracci alla Decapitazione di san Paolo di Mattia Preti, dal Riposo dalla fuga in Egitto di Aniello Falcone alla Nascita di Venere di Luca Giordano. Davvero nel caso dei Vandeneynden la ricchezza si sposò al gusto.
I curatori (Antonio Ernesto Denunzio con la collaborazione di Gabriele Finaldi, Giuseppe Porzio e Renato Ruotolo) integrano l’esercizio mecenatistico dei Vandeneynden contro il fondale più largo del collezionismo dei mercanti delle Fiandre in Italia. È impensabile allora parlare di questo tesoro senza chiamare in causa il socio in affari Gaspar Roomer, la cui fama in questo campo è ben più consolidata. L’esercizio del virtuoso accumulare dei Vandeneynden si pone nel suo solco. Il confine tra Jan e Ferdinand Vandeneynden da un lato e don Gaspare di Anversa dall’altro resta ancora oggi piuttosto labile. Riconoscerne le affinità è più facile che misurarne le distanze, tanto più che da quest’ultimo i primi ereditarono una settantina di dipinti, il nucleo più florido della loro quadreria. In posizione di spicco nella donazione Roomer, allora (tanto da essere valutato al massimo delle stime) come ora, resta il Banchetto di Erode di Rubens, oggi alla National Gallery of Scotland di Edinburgo. Il quadro emana un fascino tutto suo, composto da una danza di colore sfaldato che contrappone l’adunanza che rabbrividisce di piacere di fronte al martirio del Battista contro lo sguardo increspato d’imbarazzo di Erode, che invece trasale al cospetto del capo reciso. Altro autentico capolavoro è il Sileno ubriaco di Jusepe de Ribera del Museo di Capodimonte. Chiaramente logorato da una cronica dipendenza, il satiro è adagiato in ebbra convalescenza e non fa alcuno sforzo di nascondere la sgradevole mollezza. Il disfacimento fisico lo scopre rassegnato alla fragilità della condizione umana, offrendo una smorfia dolente di gioia al riempirsi del calice a conchiglia. Intorno altri satiri lo tengono d’occhio, rilanciando quello spirito tutto di Ribera per la faccia grottesca del reale.
Non è chiaro con quali criteri i Vandeneynden considerassero queste opere d’arte. La risposta più facile è che fossero niente più che un investimento commerciale, per di più stimolato anche dalle esigenze di rispecchiamento sociale di una famiglia in crescita di identità, agiata nei fatti ma non nella nomenclatura. Di certo, come suggerisce il catalogo (Silvana Editoriale) – specie nei contributi di Renato Ruotolo e Alison Stoesser –, quel fiorente museo affondava nel vivo del tessuto familiare, vista la parentela con le dinastie artistiche dei Brueghel e dei de Wael. Non stupisce allora che il loro gusto, poggiandosi su una rete di intermediari sparsa per il continente oppure sul passaggio italiano di pittori stranieri, fosse naturalmente portato alla preferenza per immagini di natura e di battaglie, cuore e vanto della quadreria.
A questo punto è bene dire che l’esposizione si fonda su un compromesso. Non potrebbe essere altrimenti per un progetto che fida la sua efficacia su un inventario antico. Il fatto che a stilare la lista fosse un pittore non è una garanzia di precisione. Le proposte di Luca Giordano, specie per le figurazioni di genere, sono tutt’altro che puntuali. Inoltrarsi tra le sfuggenti voci documentarie restituisce solo un numero limitato di quadri dall’identità certa o certificabile. La selezione nel campo neutro dei quadri di genere è effettuata perciò in base a criteri diversi. Dove non è possibile risarcire – e questo caso si estende, tra gli altri, alle Vedute di Jan Both, alle Battaglie di Jacques Courtois, alle Nature morte di Jan Fyt e alle Bambocciate di Jan Miel – si sfiora quello stile con dei surrogati, perseguendo l’obiettivo di un riscatto d’ambiente. Si tratta quindi di una evocazione più che di una ricostruzione: le attuali conoscenze (riferite dettagliatamente da Giuseppe Porzio e Gert Jan van der Sman) non permettono di andare oltre.
In conclusione, la mostra sui Vandeneynden a palazzo Zevallos Stigliano restituisce una prova in chiave figurativa di quello che la classe mercantile ha significato per certe zone d’Italia, segnando un momento decisivo nella storia del collezionismo a Napoli nel Seicento. La presenza dei Vandeneynden segnò una vera svolta artistica in città, contribuendo in modo decisivo all’opera di acculturazione di Napoli all’immaginario nordico mediante la circolazione di quadri come palestra stimolante e nuova per gli artisti del posto e all’esportazione di pitture meridionali sulle piazze europee. Un tema di forte stimolo per ulteriori approfondimenti.