Ricapitolando le fasi del suo lavoro, Christopher Bollas ha raccontato che dalle esperienze quotidiane, o talvolta dai quaderni dove annota i passagi più significativi dell’analisi dei suoi pazienti, ogni tanto una idea raggiunge la sua mente, senza rendersi però del tutto intellegibile. Bollas prende appunti e non si sforza di affrettarsi a capire, ma spesso – scrive – «è l’idea che lotta perché io ci pensi». Non a tutto ciò che conosciamo – intende dire – siamo in grado di dare una rappresentazione mentale, quindi di pensarlo.

Nella dialettica costitutiva dell’Io, che consiste della negoziazione inconscia tra ciò che abbiamo ereditato e ciò che abbiamo acquisito, si deposita una memoria del processo ontogenetico che è un vissuto esistenziale, recuperabile al ricordo sebbene non sia mai stato appreso.
Prima ancora di elaborarla con il pensiero, il bambino sperimenta «una esperienza dell’essere» che riflette «l’essenza della vita prima dell’esistenza della parola». Tra la logica determinata dalla disposizione genetica e quella derivata dal rapporto con la madre, il bambino stabilisce dei compromessi che formano un suo sapere, parte del quale non trova rappresentazione mentale: è ciò che Bollas chiama «il conosciuto non pensato». Attorno a questo concetto, che rende conto di quella scissione fondamentale sperimentata da ciascuno di noi tra «ciò che pensiamo di sapere» e «ciò che effettivamente sappiamo» ma non possiamo pensare ruota uno dei libri più importanti di Christopher Bollas, L’ombra dell’oggetto Psicoanalisi del conosciuto non pensato (traduzione di Daniela Molino, pp.253, euro  25,00) terminato fra l’87 e l’89, che a distanza di diciassette anni dalla edizione Borla, non più disponibile, viene ripubblicato da Cortina insieme a un altro libro più recente (e non altrettanto fondamentale), L’età dello smarrimento Senso e malinconia (traduzione di Paola Merlin Baratter, pp. 244, euro 15,00) in cui lo psicoanalista americano proietta la sua formazione umanistica, – scrisse la tesi di dottorato su Herman Melville – la sua passione politica e la sua problematizzazione del disagio psichico sullo sfondo sociale.

La «madre ambiente»
Bollas ha una profonda, dettagliata conoscenza della teoria psicoanalitica classica: non solo si richiama continuamente a Freud, ma dimostra una frequentazione intensa degli scritti sia di Lacan che di Bion, pur sentendosi più vicino alla scuola inglese di Donald Winnicott, Marion Milner, e Masud Khan. Non trascura, dunque, l’importanza di seguire la logica delle sequenze narrative inscritte nei racconti degli analizzandi. Tuttavia, il suo primo lavoro con giovanissimi schizofrenici e con bambini autistici – impossibilitati a tradurre in parola il loro malessere – lo ha indotto a spostare l’attenzione su quella parte della psiche che è ancorata al mondo non verbale, concentrandosi sulla necessità di ricollegarsi alla grammatica dell’essere che precede l’acquisizione del linguaggio. Per prendere contatto con queste zone remote della psiche – raccomanda Bollas – l’analista dovrà essere disposto a farsi usare «come oggetto», lasciando che l’analizzato «si installi» in lui con i suoi silenzi, con il pianto, con i vissuti emotivi riattivati nel ricordo delle sue prime esperienze di relazione. Per quanto spaesante, l’analista dovrà esporsi a quella esperienza a volte drammatica che consiste nel restare presi nell’idioma del paziente, tollerando di non sapersi orientare, di non sapere chi egli sia e dove si trovi nella mente dell’altro.

Convivere con questa incertezza, dare valore alla propria capacità di perdersi nell’ambiente creato dall’analizzato, e dunque cedere la propria percezione di sé via via che la situazione clinica lo richiede, può rivelarsi un aiuto prezioso alla scoperta che il paziente fa di se stesso, e al suo procedere verso una coesione del senso di sé. Per svolgere questo compito, è fondamentale che l’analista riprenda la funzione trasformativa di ogni madre nei confronti del suo bambino: proprio il fatto di alterare, sia positivamente che negativamente, la vita fisica, emotiva, ideativa del bambino – cullandolo, sorridendogli, parlandogli, creandogli intorno un ambiente facilitante – fa sì che la madre venga vissuta come un processo più che come un oggetto.

Di fronte a una persona che chiede aiuto alla psicoanalisi, e sa di sapere qualcosa ma di non averlo ancora elaborato al punto di poterselo rappresentare mentalmente, l’analista dovrà funzionare da traccia mnestica, ovvero riagganciare quei ricordi che, pur non essendo stati cognitivamente registrati, rimangono nell’Io, un «processo organizzativo inconscio – scrive Bollas – che rispecchia la presenza della nostra struttura mentale». Il lavoro dell’analista dovrà dunque riprendere la funzione trasformativa della madre, là dove essa era stata disturbata o traumaticamente interrotta. Succede spesso – ricorda Bollas – che un bambino venga lasciato solo a confrontarsi con un problema per lui vitale, che esorbita le sue capacità di elaborazione. L’allontanamento di un genitore, per esempio, se supera il tempo in cui il piccolo è capace di conservarne l’immagine mentale, scatena uno stato di angosciosa confusione, che rompe il senso di continuità della propria esistenza. Il trauma subìto diventerà, allora, non tanto un passaggio nel corso della vita, ma un evento che la definisce.
Per quanto questi stati mentali siano preoccupanti, per quanto attivino processi insostenibili al pensiero, devono essere trattenuti – dal bambino prima e dall’adulto poi – allo scopo di «mantenere intatta la vita». Andranno a formare quello stato del Sé, che rimarrà come qualcosa di inarticolato e di sfuggente all’espressione: da qui il concetto di conosciuto non pensato, una esperienza remota che neppure i sogni riportano. La vita mentale non si limita a quel che è traducibile nell’ordine del simbolico, infatti, ma accoglie esperienze profonde del Sé che, pur non avendo accesso a una rappresentazione psichica, vengono conservate e concorrono a formare l’«idioletto della grammatica dell’Io».

È questo che Bollas chiama il carattere, ovvero una relazione con gli altri e con se stessi, che porta tracce dell’esperienza storica con i punti di riferimento primari di ciascuno di noi. Una delle finalità implicite nella alleanza terapeutica consisterà nel riportare alla superficie e decifrare ciò che l’analizzato sa già di sapere, senza tuttavia averlo mai potuto pensare.

Anche l’esperienza estetica, proprio in quanto trasformativa, rimanda inconsciamente al tempo di una fusionalità profonda del soggetto con i suoi oggetti primari: la madre, innanzi tutto, che con il proprio «idioma di cura», con il proprio stile di interazione, crea un ambiente e dà forma al mondo interno del bambino, allestendo per lui la prima esperienza estetica. È un campo, questo, che a Bollas sta particolarmente a cuore: prima ancora di indagarlo con gli strumenti della psicoanalisi, ne ha fatto il suo oggetto di studio privilegiato, arrivando a conquistare un dominio invidiabile della letteratura, dell’arte, della filosofia, che ha anche insegnato. L’ultimo suo libro, L’età dello smarrimento ne porta ampie testomonianze: al tempo stesso prende in esame la trasformazione subita dai prodotti culturali del nostro tempo (che traducono in equivalenti simbolici le nostre esperienze psichiche più remote) e descrive alcuni passaggi storici cruciali insieme alle loro loro ricadute nella psicologia sociale. Così come la democrazia ateniese non si limitò a inaugurare un sistema di governo ma si estese a formare una teoria della mente per le generazioni a venire, la febbre di sviluppo industrale della Germania prima della guerra si trasformò in una «dimensione maniacale, che si radicò lentamente nei presupposti idealizzanti riferiti al Sé e alla nazione».

Diagnosi del qui e ora
Tutte le società hanno cercato nell’«Altro» un contenitore delle proprie parti indesiderate: i «selvaggi» vittime della colonizzazione furono, per esempio, i depositari ideali «delle identificazioni proiettive delle menti europee. Dovevano essere considerati primitivi e violenti», così che l’Occidente potesse differenziarsi come «sosfisticato e puro». Più in generale, la dinamica che ha portato a tante guerre, ha sempre previsto prima l’esaltazione per una causa, poi l’individuazione di un nemico nel quale, di volta in volta, intere nazioni hanno proiettato le proprie parti scisse e meno presentabili.

Altri stati d’animo vengono seguiti da Bollas nel corso del loro sviluppo lungo i due secoli scorsi, fino alla diagnosi che riguarda il nostro tempo: un senso di lutto collettivo sembra avere preso il posto della fiducia nelle legittime aspettative che avevano tenuto insieme comunità neanche tanto remote. «Quando le società si identificano fortemente con convinzioni che sono andate perdute – scrive Bollas – si può verificare una perdita collettiva del senso di Sé».