Prima di ogni altra cosa, vi è il profondersi del colore – una prodigalità, una munificenza, che lascia abbacinati. È come se niente più lo costringesse, lo tenesse a freno, senza tuttavia che, d’altra parte, sia evidente in esso uno sforzo, una tensione o l’affermazione di una qualche potenza. Colore sensuale, ebbro, in deliquio, abbandonato. Se proprio dell’atto è il volere, il gesto, invece, indugia nel rimando a qualcosa che non è dato. Non che la pittura rompa la concatenazione causale degli atti, ma la «scompiglia, la rilancia fino a perderne il senso».

Twombly_Untitled_acrilico, oil stick, matita colorata e matita su legno 1992 (particolare)
Untitled, 1992

Gestualità del colore, in primis, che si apre all’inafferrabile semplicità dell’essere ciò che è. Per questo Roland Barthes, in uno dei suoi due saggi decisivi su Cy Twombly, diceva che il colore è «un godimento». Non tanto un desiderio, perché non viene da altro; la relazione qui è sospesa, se non spezzata. Sarà questo uno dei lasciti dell’automatismo surrealista ripreso dalla gestualità americana, e che Twombly porta alle estreme conseguenze nell’incontro con la grande pittura europea. Il colore gode di sé, della sua materialità, della luminosità e delle ombre, del suo splendore. Pulsionalità ed erotismo, o autoerotismo, talmente intensi da assumere i caratteri di una passione. In effetti, la morte non è mai lontana in queste opere: l’incupirsi improvviso o graduale dei toni, l’appassire degli iris e delle rose, lo sgocciolio reiterato e dissipativo di un’abbondanza paga di sé. È la poesia a percorrere metricamente il segreto manifesto di questi colori: «l’iperbole del cinerino / marese, del bianco stagno, del / rosa fucsina, dei verdini colore / del porro, e grumi di bianco / spermacetico, bianco saliva, bianco lemon, bianco lividura…» (Emilio Villa).
Questo è l’impatto – o, almeno, un possibile impatto – con l’opera di Cy Twombly che, fino al 13 settembre, si può vedere a Venezia presso la Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro. La mostra, curata da Julie Sylvester e Philip Larratt-Smith, ha come titolo Cy Twombly. Paradise e dà una prima utile indicazione del variegato percorso dell’artista americano, attratto fin da giovane dall’Europa (insieme a Robert Rauschenberg sarà anche nel Marocco di Paul Bowles) e vissuto a lungo in Italia, dove è morto nel 2011, a 83 anni.

Una sessantina sono le opere alllestite, che vanno dagli anni cinquanta fino agli ultimi mesi di vita dell’artista. Nel susseguirsi delle sale, il visitatore partecipa del dipanarsi di una forza creativa singolare che, con pochi scarti, si sviluppa in maniera quasi spontanea con un incedere impressionante. È vero che a volte sembra affiorare un certo compiacimento, del resto difficile sarebbe il contrario – tale è l’energia e la facilità del tratto, la sicura partizione dei diversi supporti, l’esatto germinare di macchie, scie, spruzzature. Tutto questo può essere uno dei massimi ostacoli nell’arte. Si è parlato di ispirazione, sottolineando la genealogia antica e romantica. E di respiro ampio effettivamente si tratta, ma a patto di aggiungere che qui posseduto non è tanto l’artista quanto il farsi stesso della pittura, la danza orgiastica della materia pittorica (Camino Real, 2011). La luce che spesso si diffonde da queste opere sembra meno un effetto voluto che un accadere sorprendente come il caso di un cieco che, improvvisamente, apra gli occhi e veda.

Twombly_Untitled (Camino Real VIII)_Acrilico su legno 2011 (particolare)
Untitled (Camino Real VIII), particolare, 2011

Si prenda la scrittura e lo scarabocchio, così tipici dell’arte di Twombly. Fluttuanti in un universo vuoto insieme a cifre, quasi-forme, segni, schizzi e ghirigori, ogni possibile sublimazione è persa fin dall’inizio. Eppure, una metamorfosi avviene: si rompe la gabbia che confina lo scarabocchio in un’aderenza a sé senza resto. E qualcosa si schiude, germoglia. Il più delle volte funziona, e questo senza causa apparente (se ne può seguire lo sviluppo da Panorama, 1955, a Untitled (New York City), 1968, fino a quattro opere su carta del 1969 e a due intensi lavori sempre su carta del 1971).

La grafia, anch’essa, perde il legame essenziale con il significato, e ondeggia nell’esitazione dello slancio inane verso ciò che la compirebbe. Ma in questa incompiutezza è come se, a poco a poco, la scrittura, le lettere, divenissero intime con se stesse tanto da poter finalmente aver luogo con il supporto (le sette parti di Untitled. A Rose, 1989, e Rose IV, 2008).

Nel caso del nome, invece, tutto è perfettamente leggibile, nomi di fiori, nomi di città, Odalisca (1988), ma soprattutto i nomi degli dèi, degli eroi del mondo antico, delle opere, dei filosofi e poeti specialmente greci e latini. Non c’è evocazione, quanto piuttosto un passaggio. Una volta letto, il nome non può che essere ripetuto. Più che una qualche sostanzialità è un’intensità che il nome porta con sé; la malferma grafia è lì a testimoniarlo. Jean-Luc Nancy ha notato che in Twombly «non c’è mai un volto», e ha aggiunto che «la faccia divina non è un volto (non è altri).
Ma la presenza materiale e locale – qui o là, da qualche parte – della venuta o della non-venuta del dio». Se c’è qualcosa di divino nelle opere di Twombly è questa transitante nominazione, per cui quasi per caso capita che un altrove si apra (o si chiuda) in questo mondo qui. Si veda Ilium (One morning ten years later), 1964-2000, dove la piana di Troia si carica di tutto questo in un silenzio assordante – il rumore, semmai, è nella mente di chi guarda. Niente qui è fuori posto nelle tre parti dell’opera; ogni cosa giace in una serenità insospettata. Le variazioni, le sovrapposizioni, le inflessioni e le modulazioni sono puramente pittoriche in un coacervo di segni, nomi, forme scabre e sottilissime sfumature per lo più rosa e azzurre in un bianco esteso, vuoto, ma che, appunto, bianco non è. Il mito si libera di quella costruzione posteriore che si chiama «mitologia», si fa corpo grafico e colore, occasione per il dispiegarsi di un altro mattino di pittura.

twombly

In altre opere sono la natura e i suoi elementi, il paesaggio e le cose in esso a dominare – nelle sette parti di ridotte dimensioni intitolate Gaeta Set VIII, 1986, nelle due grandi tavole Untitled del 1992 poste accanto come a formare un dittico e nei Paesaggio del 1986. Dipingere è far percepire il vuoto dove fluttuano le cose.