La strage di Charleston potrebbe riuscire laddove dove hanno finora fallito decenni di attivismo, proteste e militanza per i diritti civili. Ieri il governatore del South Carolina, la repubblicana Nikki Haley, si è pronunciata a favore della rimozione della bandiera «sudista» dal Capitol di Columbia, dove siede il parlamento dello stato. Una decisione definitiva in merito spetta al parlamento, ma la semplice presa di posizione da parte di un governatore in carica di uno stato ex confederato contro il vessillo dell’esercito secessionista ha una enorme valenza simbolica. L’ultimo a provarci, proprio in South Carolina, era stato rimosso alle prime elezioni e la sola menzione in quello stato compattamente repubblicano è stata considerata tabù politicamente letale.

In realtà la questione della bandiera «ribelle» trascende le sponde politiche negli stati del sud dove è questione «culturale» e identitaria. Secondo i suoi partigiani lo stendardo militare delle forze sudiste sarebbe un omaggio alla tradizione e agli antenati caduti sul campo.

La realtà è che la bandiera con le sue strisce incrociate tempestate di stelle fu adottata durante la reconstruction seguita al conflitto da elementi nostalgici e irredentisti confluiti nel Ku Klux Klan, assumendo una chiara valenza razzista accentuata dall’ulteriore popolarità a partire dagli anni ‘50 quando divenne il simbolo adottato e sbandierato dai segregazionisti contro le rivendicazioni dei neri durante movimento per i diritti civili .

Per decenni, malgrado la resa firmata da Robert E. Lee ad Appomatox nel 1865, la bandiera dell’esercito schiavista ha svettato sui palazzi di governo dell’ex Dixie; un oltraggio quotidiano per generazioni di neri del sud ed un totem ostentato da una «cultura» redneck intrisa del razzismo implicito nell’orgoglio patriottico sudista. Nel sud la bandiera è usata da squadre di football e appesa nei bar, stampata sulle felpe, appesa ai finestrini dei i pick-up dei good ol’ boys, imprescindibile dall’iconografia hillbilly, dai comizi di George Wallace ai concerti di Lynyrd Skynyrd. Dall’altra parte ricordo il picchetto fisso davanti al palazzo di governo durante le olimpiadi di Atlanta nel 1996.

I cittadini neri di quella città protestavano la bandiera che svettava «fiera» sul palazzo di governo in quella capitale del «sudismo» edulcorato da Via Col Vento. In Georgia la bandiera venne abbandonata nel 2001. La maggior parte degli stati del sud hanno seppure a malincuore ammainato quelle bandiere dagli edifici pubblici La Carolina del sud è (assieme al Mississippi) fra gli ultimi a mantenerla.

«Sulle questioni di razza abbiamo una storia tortuosa» ha ammesso la governatrice dello stato che ospitava, proprio a Charleston, il principale porto schiavista della Confederazione. «I cittadini sono liberi di esporre le bandiere che vogliono, ma per la pubblica amministrazione è diverso. Soprattutto alla luce degli eventi della scorsa settimana» ha aggiunto. Dylann Roof infatti, con la sua febbricitante nostalgia secessionista e ha riproposto la polemica in tutta la sua ineluttabile violenza. L’attentato è stato calibrato da Roof per massimo effetto in questo senso: ha preso di mira una chiesa storicamente protagonista dell’emancipazione sin dal tempo della schiavitù.

La strage inoltre è avvenuta due giorni prima della 150a ricorrenza di Juneteenth – il 19 giugno 1865 in cui l’editto di emancipazione promulgato da Lincoln venne imposto anche in Texas, ultimo stato che rifiutava ancora di liberare gli schiavi.

Non c’è bisogno di «dichiarare vincitori e vinti» ha detto il governatore, per ammettere che Roof «aveva una visione malata e perversa della bandiera». Prima di Haley si erano espressi per la rimozione, numerosi politici compresi Obama, Mitt Romney e perfino Lindsey Graham, senatore conservatore del South Carolina e candidato presidenziale repubblicano. Per il presidente i fatti di Charleston e la polemica sulla bandiera sono stati gli ultimi episodi a porre la razza al centro della sua presidenza «post-razziale». Obama ha inizialmente affidato al suo attorney general, Eric Holder, una critica del sistema carcerario-industriale.

Gli omicidi di polizia hanno rilanciato col movimento Black Lives Matter, un impeto militante non visto dai tempi dei diritti civili. Una «primavera nera» forse non così connessa al primo presidente nero. La violenza terrorista di Dylann Roof in fondo è figlia di un estremismo bianco che ha visto confermato nell’elezione di Obama il suo complottismo crepuscolare e paranoico.

Il presidente che venerdì sarà alla Emanuel Ame per il funerale del reverendo Pinckney; da un lato rifiuta l’idea del «non è cambiato nulla» («non si può dire che non ci siano stati progressi a meno di essere stati un uomo nero negli anni 50»).

Dall’altro in un podcast diffuso l’altro ieri ha sostenuto: «lo schiavismo e la discriminazione gettano un ombra lunga sulla nostra storia e vengono in parte tramandate nel nostro Dna. Non siamo ancora guariti, è ovvio. E non si tratta solo di imparare per galateo a non dire nigger in pubblico. Una società non si disfa così facilmente di onte accumulate lungo l’arco di 2-300 anni». Una lezione amara che tutto l’occidente sta imparando.

Come ha detto nell’anniversario dei fatti di Selma, Obama afferma che «nonostante i progressi fatti la marcia è lungi dall’essere compiuta» e indica l’apertura sociale sui diritti Lgbt come un esempio di evoluzione possibile. Per il razzismo il compito sarà più arduo; intanto un ammaina bandiera – anche se in ritardo di 150 anni – male non può fare.