Lavoro

La Good Year non sgomma più

La Good Year non sgomma piùQuel che resta oggi della Goodyear di Cisterna di Latina – Andrea Sabbadini

Dentro la crisi Duecento operai morti e un cimitero industriale: è quello che ha lasciato la multinazionale degli pneumatici a Latina. Lo stesso copione si ripete ad Amiens, in Francia

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 6 maggio 2013
Angelo MastrandreaCISTERNA DI LATINA (LT)

L’area industriale che ha il suo epicentro a Cisterna di Latina è una sorta di Brianza del centro-sud. Qui sono arrivate multinazionali da tutto il mondo, allettate dai finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno. Oggi, finiti da un pezzo i fondi pubblici, si presenta come un cimitero post-industriale. La constatazione è obbligata e persino ovvia, a osservare quel che rimane della Goodyear, gloriosa fabbrica di gomme per auto. Se è facile prevedere che, vendendosi meno automobili, si venderanno anche meno pneumatici, si può solo riconoscere alla multinazionale americana di essere stata preveggente. La Goodyear ha chiuso infatti nel 2000 ed è stata la capofila di un processo di deindustrializzazione che in meno di quindici anni ha lasciato lungo la strada solo capannoni abbandonati, rovine metalliche corrose dalla ruggine e terreni che chissà se e quando saranno mai bonificati.

In una metaforica via crucis del declino italiano, questa è una stazione obbligata. Perché se la Hydro Slim è il paradigma del lavoro “dopo Cristo” e la Findus del finanz-capitalismo, mentre la crisi del polo farmaceutico è figlia dei patti di stabilità e del Fiscal compact, e quella dell’Idi della corruzione vaticana, la Goodyear è invece un monumento alla civiltà industriale, che nel Centro e nel Sud Italia è durata non più di un trentennio e ha lasciato dietro di sé una tabula rasa. «Il punto è che da queste parti non si è mai sedimentata una cultura operaia. Qui la fabbrica era vissuta esclusivamente come un luogo che assicurava un salario, ma il lavoratore quando usciva tornava a casa e coltivava l’orto. Evidentemente esisteva un substrato difficile da sradicare», spiega Dario D’Arcangelis, un sindacalista della Filctem Cgil protagonista della battaglia contro la chiusura dello stabilimento. Le tute blu con il logo del piede alato, dismessi gli abiti da lavoro, tornavano i contadini che erano stati fino ad allora. Viene in mente Rocco Scotellaro e la sua profezia che la civiltà contadina, apparentemente vinta, sarebbe rispuntata sempre qua e là, con buona pace di chi pensava che sarebbe bastato far nascere le fabbriche per introdurre la modernità, creare una classe operaia con una propria coscienza rivoluzionaria e cancellare così la società preesistente, arcaica, immobile e pertanto conservatrice nei valori e nello stile di vita.

Finita l’epoca degli incentivi statali all’industrializzazione del Sud, la Goodyear inaugurò la prima crisi industriale del Basso Lazio. Non era motivata da alcun crollo del mercato, ma semplicemente dalla possibilità di ridurre le spese spostando la produzione laddove il costo del lavoro era decisamente più basso. «Siamo andati finanche alla sede centrale negli Stati Uniti per sventare la chiusura, ma non c’è stato niente da fare», racconta ancora D’Arcangelis. C’è un film del 2003, una commedia all’italiana che fa sorridere lasciando un fondo di amarezza come solo nelle opere più riuscite può accadere, la cui trama fa pensare a questa vicenda: si intitola Il posto dell’anima ed è la storia di una multinazionale di pneumatici che delocalizza e della battaglia degli operai per difendere il loro lavoro. Alla fine a poco serviranno l’occupazione, i sit-in e perfino un viaggio in America: l’unico risultato sarà quello di cementare i rapporti sociali nella comunità dei lavoratori e tra le loro famiglie. Non è detto che il regista Riccardo Milani si sia ispirato a questa vicenda – il film è ambientato a Vasto, in Abruzzo – però è certo che la storia della Goodyear è emblematica della crisi prima della Grande Crisi, dove i copioni – come abbiamo visto alla Hydro Slim e alla Findus, e persino alla Sigma Tau – si somigliano tutti, sono scritti altrove e in Italia trovano solo pedissequi esecutori.

Il caso francese

Non che le cose vadano molto meglio laddove una politica industriale, sia pure debole, esiste. Per esempio in Francia. Evitata la delocalizzazione grazie a un “piano sociale” del governo, non c’è progetto che tenga di fronte alla inesorabile decrescita del mercato dell’automobile. La Goodyear France il 31 gennaio scorso ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Amiens-Nord perché, da 20 mila pneumatici al giorno, la produzione è scesa ad appena 2.700, con l’effetto di far lievitare i costi per ognuno di essi: 75 euro per una gomma venduta sul mercato a circa quaranta. Vedendo a rischio il posto di lavoro, 1.173 operai da quel giorno sono mobilitati per scongiurare la chiusura. Il ministro del Lavoro d’Oltralpe, il socialista Arnald Montebourg, è intervenuto per agevolare la cessione della fabbrica di Amiens al gruppo Titan e la riconversione alla produzione di macchinari per l’agricoltura, ma il sindacato Cgt – l’equivalente della nostra Cgil – ritiene che si tratti solo di «una chimera». È la dimostrazione di come gli Stati siano sempre più impotenti di fronte allo strapotere di gruppi finanziari e multinazionali e delle loro strategie finanz-capitalistiche – come le definirebbe Luciano Gallino – per massimizzare il valore estraibile dal lavoro umano e dall’ecosistema. Se andranno in porto così come sono state presentate, le ristrutturazioni di Arcelor-Mittal Psa, Air France, Alcatel, Petroplus, Doux, Sfr, Renault e Sanofi faranno evaporare, nei prossimi anni in Francia, più di ventimila posti di lavoro.
Una situazione del genere – è evidente – non può non provocare forti tensioni sociali. Ma in un’Europa sempre più rinchiusa nei propri egoismi localistici e nelle diffidenze reciproche, i drammi di un Paese fanno fatica a sfondare nell’opinione pubblica degli altri. Solo per fare qualche esempio, non ha avuto nemmeno l’onore di una breve sugli organi di stampa l’ultima manifestazione dei lavoratori della Goodyear France, il 16 marzo scorso davanti alla sede della società ad Amiens, conclusasi con copertoni incendiati e scontri con la polizia. Due giorni prima, un’ampia delegazione di lavoratori aveva partecipato alla manifestazione indetta dalla Confederazione europea dei sindacati a Bruxelles per mostrare la sofferenza operaia al “vertice di primavera” dei leader europei, sotto un nevischio gelido. Ma, nonostante le migliaia di persone in marcia e un cahier de doléances di tutto rispetto, le loro voci, come avrebbe cantato Bob Dylan in altri tempi, sono state portate via dal vento che sferzava il Parco del Cinquantenario. Allo stesso modo era scivolata via la protesta degli operai della Arcelor Mittal davanti al Parlamento europeo a Strasburgo, lo scorso 7 febbraio, in cui un operaio era stato centrato a un occhio da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto. Nemmeno il sacrificio umano è bastato ad attrarre l’attenzione di media sempre più distratti e in crisi di identità e di autorevolezza, come ha scritto l’ex direttore di Le Monde Diplomatique Ignacio Ramonet in un illuminante libretto sul cambiamento dell’ecosistema dell’informazione: L’invenzione del giornalismo. Come sarà il mondo dopo la scomparsa dei giornalisti-dinosauri?

L’esempio d’Oltralpe

La storia della Goodyear di Latina può essere raccontata anche da un altro punto di vista: non quello dei 570 operai mandati a casa e neppure quello degli 80 fortunati riassorbiti dalla Meccano che rilevò la fabbrica per un breve periodo, prima della chiusura definitiva, bensì degli oltre 200 caduti sul campo dall’apertura nel 1964, morti di tumore a causa delle più di duecento sostanze cancerogene – tra le quali l’amianto – inalate per anni sul posto di lavoro. Tredici anni dopo, oggi, un documentario, Happy Good Year, ricostruisce quella storia, ascoltando i superstiti e tornando qui dove mi trovo oggi, tra le rovine di quello stabilimento, che chissà se e quando saranno mai bonificate. «Sono morti quasi tutti, non so se ne rimane qualcuno», dice un ex operaio. «Mi sento miracolato rispetto ai miei colleghi perché sono campato undici anni in più», racconta un altro.
La Goodyear afferma di aver avuto «sempre estrema attenzione per la salute e la sicurezza di tutti i suoi dipendenti». Ma i familiari delle vittime che il 16 gennaio scorso affollavano l’aula del tribunale di Roma per ascoltare la sentenza d’appello nei confronti degli ex dirigenti dell’azienda non la pensavano allo stesso modo, e sono rimasti parzialmente soddisfatti da un verdetto che non avrebbe restituito la vita ai lavoratori deceduti ma solo un pizzico di giustizia per la loro vicenda. In primo grado i nove imputati erano stati condannati a 21 anni complessivi di carcere per omicidio colposo plurimo e lesioni plurime aggravate. La Corte d’Appello ha mitigato le pene, condannando l’ex legale rappresentante della Goodyear a un anno e sei mesi per omicidio colposo aggravato nei confronti di un operaio, mentre altri tre imputati – due ex dirigenti e l’ex direttore dello stabilimento, che in prima battuta erano stati dichiarati colpevoli – sono stati assolti perché il fatto non sussiste.

La Spoon river calabrese

È sempre difficile, quando le morti sono così silenziose e diluite nel tempo, riuscire ad afferrare responsabilità, individuare nessi e consolidare una memoria collettiva che vada oltre quella – familiare e pertanto intima – di parenti e amici. Ci sono riusciti 700 chilometri più a sud. A Motta San Giovanni, una decina di chilometri sopra Reggio Calabria, ad accogliere i rari visitatori che hanno voglia di inerpicarsi tra distese di fichi d’india, si viene accolti nella piazza del paese da una statua raffigurante un minatore. Non è una cosa atipica in Calabria – monumenti analoghi si possono incontrare negli altri comuni che hanno esportato per decenni braccia a buon mercato per miniere e gallerie. Quel che è invece inusuale è l’impressionante teoria di lapidi di «caduti sul lavoro». Una Spoon River semi-aspromontana di morti per incidente ma soprattutto per via di un killer silente quanto paziente: la silicosi. Un male lento e defaticante, da corsia d’ospedale, di quelli che non producono un dolore acuto e travolgente, ma piuttosto inducono a una progressiva, fatale rassegnazione. Non un evento tragico e improvviso, di quelli che scatenano la rabbia di chi rimane e indignano l’intera comunità, provocano accuse e segnano l’opinione pubblica, e fanno sì che la vittima non rimanga un anonimo “muso nero” ma abbia almeno la magra consolazione di un riconoscimento pubblico.

L’unico che abbia avuto questo onore a Motta San Giovanni è Cosimo Verducci. L’uomo, un quarantaduenne padre di nove figli – il più grande di 18 anni, la più piccola di due – saltò per aria la notte di Santa Barbara del 1950 insieme a dodici altri compagni nelle viscere di Troina, in Sicilia. Il boato, che fece tremare l’intero paese dalle fondamenta come una scossa tellurica, rimase nella memoria collettiva e le morti furono onorate con una medaglia d’oro al valor civile. Da allora, ogni 5 dicembre, i cittadini di Motta San Giovanni, portando in processione la statua di Santa Barbara protettrice di loro stessi, metaforicamente si caricano sulle spalle la sofferenza di Verducci e di tutti gli altri militi ignoti dell’epopea minatoria. Quando sono stato laggiù, mi hanno raccontato di come ancora oggi il paese sopravviva del lavoro dei suoi morti, anche a distanza di anni dal decesso, grazie alle pensioni di reversibilità che le vedove continuano a percepire. Davanti alla statua del minatore un’epigrafe, opera del medico – e poeta a tempo perso – Benedetto Mallamaci recita: «Impasto di prestanza, miniera d’altruismo, agonizzando vive i suoi vent’anni senza futuro».

Se morti e malattie devastanti sono il rovescio della medaglia capitalista, dalla rivoluzione industriale a oggi, non meno inquietante – e ad esse correlata – è la devastazione ambientale. Una volta l’area pontina era tutta campagna, e campagna vuol dire agricoltura, cioè un altro modello possibile di sviluppo. Basta volgere lo sguardo all’indietro, dalla fabbrica abbandonata verso la distesa piatta che la circonda, per comprendere cos’era e cosa avrebbe potuto essere questa sterminata pianura paludosa attraversata da una strada che non sarà la Route 66 di Steibeck ma offre molti spunti per un reportage dalla Grande Recessione del 2013. Per bonificarla il fascismo reclutò 50 mila operai da tutta Italia e li mise al lavoro per un decennio, un’epopea raccontata dallo scrittore Antonio Pennacchi in Canale Mussolini, che nel 2010 vinse pure il Premio Strega con questo romanzo: di qua le macerie e i terreni inutilizzabili della ex Goodyear, di là un vigneto. La Brianza del centro-sud è un continuo alternarsi di capannoni industriali che promettono grandi industrie ma funzionano sempre più a scartamento ridotto, fabbriche dismesse che cadono a pezzi e terreni agricoli a lavorare i quali, oggi, incontri solo immigrati e nessun italiano. 

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